Grexit

Scriveva la romanziera e filosofa Ayn Rand che “è possibile evitare la realtà, ma non è possibile evitare le conseguenze di avere evitato la realtà”. I greci non potranno evitare le conseguenze drammatiche di aver considerato per anni le politiche di spesa come una variabile indipendente rispetto alla ricchezza prodotta, di aver vissuto per anni al di sopra delle proprie possibilità, in una "bolla politica", garantita dall’Euro, che ha fatto perdere loro qualsiasi percezione delle regole fondamentali dell’economia.

Il voto referendario di ieri è stato solo l’ultimo atto della fuga ellenica dalla realtà. Chiamati a pronunciarsi, tecnicamente a vuoto, su una proposta dei creditori che non è nemmeno più sul tavolo, i greci tra le opzioni possibili hanno come sempre scelto la sparata più grossa. Non hanno votato per accettare le condizioni dei creditori, ma nemmeno per fare da soli; hanno votato per farsi aiutare dai creditori alle proprie condizioni. Brillante.

Il risveglio sarà duro, molto duro. Se la vittoria dell’ "okhi" comporterà la rottura definitiva delle trattative con Bruxelles e con essa l’uscita di Atene dall’eurozona, le conseguenze per il paese ellenico saranno devastanti. Stando alle previsioni di molti analisti, la Grecia precipiterà in una depressione gravissima, incomparabilmente superiore a quella vissuta a partire dall’inizio della "crisi del debito", ed è realistico che si arrivi a condizioni di "emergenza umanitaria" finora mai vissute in Europa in tempo di pace.

Nel breve periodo sarà, con tutta probabilità, il caos. Per quanto riguarda il lungo periodo, è difficile prevedere se lo shock potrà essere l’occasione per una ripartenza, del tipo di quella vissuta dai paesi ex-comunisti dopo la caduta del muro; tutto dipenderà dalle dinamiche politiche che si innescheranno in Grecia nei prossimi mesi ed anni e che è troppo presto per provare ad immaginare.

In ogni caso, da un punto di vista europeo più generale, il successo del "no" nel plebiscito greco non viene necessariamente per nuocere. Può offrire la possibilità di riorientare l’intero progetto europeo, salvando il mercato unico e mettendo invece in discussione l’ "unione politica" e l’infrastruttura assistenziale che essa porta con sé.

La vittoria del "sì" avrebbe rappresentato, comunque, un esito problematico per l’Europa, in quanto avrebbe imbrigliato certamente l’eurozona in un nuovo programma di bailout a favore della Grecia. Questo programma non sarebbe stato finalizzato a rimettere in carreggiata il paese, come è avvenuto invece nel caso dell’Irlanda, bensì più realisticamente a fare sopravvivere la Grecia in modalità puramente assistenziale. Nei fatti, la Grecia è ormai un paese strutturalmente fallito, dove gli equilibri economici, sociali ed anagrafici non lasciano spazio ad alcuna possibilità di ripresa, se non attraverso riforme veramente radicali, i cui costi politici sarebbero insostenibili per qualsiasi governo.
Negli ultimi mesi il quadro economico della Grecia si è ulteriormente deteriorato e gli stessi controlli dei capitali introdotti non sono a questo punto facilmente reversibili.

Da un lato, come evidenziato dal recente report del Fondo Monetario Internazionale, un terzo bailout richiederebbe uno sforzo di assistenza molto pesante da parte dei paesi dell’eurozona. Dall’altro, anche in presenza di un bailout le cose in Grecia continueranno ad andare male ed agli occhi dei greci la responsabilità politica del tutto – dei licenziamenti, dei tagli, delle banche a servizio ridotto – sarebbe dell’UE. Continuerebbe, né più né meno, quello che è accaduto in questi anni, con i contribuenti netti dell’eurozona che iniettano risorse verso la Grecia e con questa che risponde con una radicalizzazione del populismo.

Alla fine, la gestione paternalistica dell’Europa che con una mano finanzia i paesi più irresponsabili e con l’altra prova ad indurre più responsabilità si sta dimostrando sempre più fallimentare, non solo dal punto di vista degli esiti economici, ma anche dal punto di vista degli esiti culturali.

In questo contesto, è proprio dal "no" greco – da questo "no" così forte - che si apre una finestra di opportunità per prefigurare una visione diversa di Europa. La Germania e gli altri "paesi del rigore" hanno oggi la possibilità di consumare quella rottura finale con Atene che, un po’ per mollezza, un po’ per un omaggio rituale all’idea di unità europea, finora non sono stati in grado di compiere. Porre fine al finanziamento della Grecia ed obbligarla al Grexit può essere la scelta determinante per sottrarre l’Europa a un percorso che oggi è tristemente convergente verso quello di una “grande Italia”, cioè verso un sistema in cui il centro finanzia indefinitamente le spese della periferia, esonerandola dalla responsabilità politica.

Per quanto l’eurozona sia spesso dipinta come un insieme di "rigide regole", la verità è che la moneta unica ha incentivato in questi anni l’azzardo morale e l’espansione della spesa pubblica, grazie agli interessi bassi e alle garanzie di ultima istanza assicurati dalla BCE.

L’ "espulsione" di Tsipras dal tavolo delle trattative rappresenterebbe un messaggio nuovo ed importante, cioè che il sostegno economico dell’UE ad un suo stato membro non è più illimitato. Uno Stato non sarà più salvato comunque e "whatever it takes". Si andrebbe, dunque, a riaffermare il concetto che chi sbaglia paga, e con esso alcuni fondamentali princìpi di responsabilità fiscale e di bilancio che il paracadute rappresentato dall’euro aveva in questi anni attenuato.

È evidente che se la Grecia finisce fuori dalla “zona euro” anche altri paesi potrebbero trovarsi fuori in futuro; nessun governo potrebbe più contare sul prevalere indefinito delle "ragioni della politica" sui numeri dell’economia.
Per alcuni paesi dell’Europa mediterranea, tra cui l’Italia, aumenterebbe probabilmente la pressione per riforme economiche più strutturali. La nuova situazione sarebbe "prezzata" da un più alto spread e tutti i paesi a rischio dovrebbero rendersi il più possibile credibili nella sostenibilità del proprio debito.

Il collasso greco, tuttavia, potrebbe rendere più facile far comprendere agli elettorati quale sarebbe l’esito della scelta alternativa del default; ed in questo senso sarà già interessante vedere quali saranno gli effetti della situazione greca sulle elezioni spagnole e portoghesi di questo autunno. Al tempo stesso, il precedente dell’uscita greca dall’Euro potrebbe rendere più semplici non solamente nuove fuoriuscite "accidentali", ma anche l’eventuale uscita "politica" dalla moneta unica dei paesi più virtuosi, nel momento in cui si sentissero troppo "spremuti".

Comunque andranno le cose, quindi, il Grexit renderebbe più simile l’eurozona un poco più simile ad un’area a cambi fissi, dove i vari paesi permangono sulla base di considerazioni di costo-beneficio, e un poco meno simile ad un’area con una regìa politica che persegua finalità di "coesione sociale" su scala continentale. Risulterebbe molto più importante di oggi, quindi, che ogni paese restasse sempre autosufficiente (e quindi disciplinato) dal punto di vista del bilancio.

Naturalmente, per quanto il referendum abbia complicato il percorso dei negoziati, non si può del tutto escludere che alla fine ad un accordo tra Bruxelles e Atene si arrivi. Con il premier greco rafforzato dal referendum, un simile passaggio richiederebbe una sostanziale resa politica dei principali statisti europei, Merkel inclusa. I leader dei paesi dell’Eurozona si sono talmente esposti nei confronti del referendum greco – affermando che si trattava di una scelta tra euro e dracma – che oggi tornare a trattare con Alexis Tsipras ed aiutarlo nell’euro ed alle sue condizioni significherebbe perdere la faccia.

La riapertura del confronto negoziale e il raggiungimento di un’intesa con il governo greco sarebbe, però, l’esito peggiore. Concedere a Tsipras un accordo più "avanzato" di quello che era stato stipulato con Samaras darebbe il segnale che i greci hanno fatto bene a votarlo premier ed a sostenerlo in massa al referendum. E quindi, va da sé, che anche gli spagnoli faranno bene a votare Podemos, i portoghesi i loro partiti della sinistra radicale e gli italiani Grillo o il nuovo soggetto nascente a sinistra del PD.

Il "pericolo" non verrebbe solo dai partiti più populisti dei paesi del sud Europa; anche le forze più mainstream e di governo sarebbero spinte a politiche più lassiste dal punto di vista dei conti, in parte per togliere terreno alle opposizioni interne, in parte perché coscienti che comunque da Bruxelles e da Francoforte verrà sempre la necessaria copertura.

È chiaro che gli organismi europei potranno continuare nominalmente a mettere paletti, a diffondere linee guida, e così via, ma la loro credibilità sarà sostanzialmente nulla. Se si è derogato ad libitum persino nel caso "estremo" della Grecia, si derogherà altrettanto disinvoltamente anche nel caso degli altri paesi. Se nemmeno la Grecia ha ancora raggiunto una soglia oltre la quale l’Europa dice "basta", allora evidentemente paesi come l’Italia, il Portogallo o la Spagna hanno ancora un margine sfruttabile di decine e decine di punti di PIL di debito pubblico prima che debbano cominciare minimamente a preoccuparsi.

Come spiegava la Thatcher, il socialismo può funzionare solo finché ci sono "i soldi degli altri" ed una delle unintended consequences dell’Unione Europa e dell’Euro è stata quella di mettere a disposizione alle peggiori classi politiche nazionali tanti nuovi "soldi degli altri". Un politico come Tsipras può avere successo solo nell’Unione Europea, solo finché si può comprare il consenso dei propri elettori con i soldi dei contribuenti di altri paesi. Fuori dall’Unione Europea e dall’Euro, Tsipras potrebbe essere solo un Chavez senza petrolio e presiedere il disfacimento del tessuto economico del suo paese e la sua uscita dal primo mondo.

Le dimensioni del successo del "no" offrono ai paesi "virtuosi" dell’eurozona un’occasione d’oro per staccare la spina che alimenta il socialismo ellenico. O sarà fatto stavolta, oppure difficilmente si avrà la forza di farlo in futuro.
Per quanto la fine della Grecia sia un epilogo triste e doloroso che, certo, non tutti i greci si meritano, la "tragedia greca" potrà far del bene se contribuirà a ricondurre molti europei ad una visione realistica dell’economia e dei processi di creazione e di distruzione della ricchezza.

Se così sarà, allora ex malo bonum; da una brutta storia potrà venire fuori qualcosa di prezioso per il futuro.