Per favore, risparmiate all'Italia il disastro greco
Istituzioni ed economia
All’inizio di marzo il ministro delle finanze greco, Yanis Varoufakis, ha inviato ai suoi colleghi dell’Eurogruppo una lettera in cui erano illustrate sette possibili riforme che il governo avrebbe potuto implementare, con il sostegno economico dei partner europei, per traghettare il suo paese fuori dalla crisi. Era la lettera, qualcuno la ricorderà, in cui si proponeva di contrastare e sconfiggere il fenomeno dell’evasione fiscale assoldando temporaneamente studenti, turisti e casalinghe come delatori fiscali.
In un altro passaggio, esattamente la riforma numero 6 - “lotta alla burocrazia” - si proponeva di introdurre il divieto per le pubbliche amministrazioni di richiedere ai cittadini documenti dei quali era già in possesso, in modo da indurre i dipendenti pubblici a richiedere essi stessi la digitalizzazione della pubblica amministrazione alla quale altrimenti si sarebbero opposti: “Se i dipendenti pubblici non vengono prima obbligati a raccogliere i documenti per conto dei cittadini e delle imprese, essi si opporranno all'introduzione di servizi basati sulla rete informatica (faranno ciò per inerzia e/o riluttanza a darsi da fare per apprendere nuove abilità). Ma se i dipendenti pubblici sono prima obbligati a raccogliere i documenti per conto di cittadini e imprese, saranno loro a domandare ai propri superiori l'introduzione di servizi di IT!”.
Due proposte che, qualcuno se ne era accorto subito, denunciavano agli occhi del mondo una delle più gravi malattie della Grecia, l’impossibilità di fare riforme, anche minime, senza essere costretti aggirare con metodi grotteschi e perlopiù inefficaci le resistenze interne. In quella lettera Yanis Varoufakis stava sostanzialmente dicendo ai partner europei: “scusate, ma la situazione sfugge completamente al nostro controllo. Proprio non riusciamo ad obbligare i nostri dipendenti pubblici a fare il loro lavoro, per esempio nel contrasto all’evasione fiscale: dovremo assoldare dei volontari che operino al posto loro. E dovremo sperare che siano gli stessi dipendenti pubblici a desiderare internet e un computer, altrimenti non possiamo in alcun modo pretendere che lo usino”.
Se c’è una cosa che rende l’Italia simile alla Grecia è proprio questa: la sensazione che sia un paese sostanzialmente immutabile nei suoi vizi e che le resistenze corporative, dentro e fuori dal settore pubblico, rendano qualsiasi tentativo di riforma un supplizio di Sisifo, un’arrampicata verso una vetta irraggiungibile, trascinando un masso che rotolerà inesorabilmente a valle rendendo vano ogni sforzo. Ed è propria questa difficoltà che ci espone, più di paesi come Spagna e Portogallo che negli anni della crisi hanno fatto di più e meglio, ai pericoli del contagio che una sempre più probabile uscita della Grecia dall’Euro comporterebbe. Il prezzo dell’immobilità, che si tradurrebbe in tassi di interesse sempre più elevati sul nostro debito.
Prima ancora di capire cosa succederà in Grecia all’indomani della vittoria del No c’è una priorità, la priorità assoluta, per il capo del governo di un paese che corre un rischio del genere, ed è quella di evitare che la sua gente si trovi a vivere la tragedia che stanno vivendo i greci in queste ore. Le prime parole che i giornali gli hanno attribuito dopo i risultati del referendum greco sono senz'altro condivisibili: "se volete proporre ai cittadini code ai bancomat per venti euro al giorno, se questo volete proporre agli italiani, accomodatevi pure. Io preferisco fare le riforme e tenere fuori l’Italia da questi scenari drammatici”. Ma sono parole, e i fatti devono essere proporzionati alla gravità dei rischi che corriamo.
Ci sono ostacoli culturali alle riforme, dall’ideologia dei beni comuni alla prassi giuridica dei diritti acquisiti, che hanno impedito e ancora oggi impediscono all’Italia di invertire la rotta del declino, di tagliare la spesa pubblica, di abbattere il peso di una pressione fiscale insostenibile, di trasformare il paese in un luogo decente in cui investire - oggi è un luogo dal quale le giovani generazioni sperano di riuscire a fuggire. C'è la convinzione, che sembra contagiare anche la maggioranza, che i guai peggiori siamo alle spalle, che il più sia stato fatto, che oggi la strada sia in discesa, che si possa tornare a spendere allegramente, a cominciare dal fronte previdenziale. Niente di più falso e di più pericoloso, oggi più che mai.
E l’ossessione popolare e maggioritaria - da Grillo a Salvini, da Landini a Brunetta, da Fassina alla Meloni - di attribuire ad altri la responsabilità dei propri guai va trattata per quel che è: un'ideologia parassitaria e autoassolutoria che, se alimentata, può condurre un paese al suicidio, come in Grecia.