Per il governo di Ankara non si può parlare di genocidio degli armeni: essi, un secolo fa, sarebbero stati solo la parte soccombente di una guerra civile soffocata nel sangue dai nazionalisti turchi. In questa chiusura, la Turchia islamica di Erdogan non è peraltro diversa da quella laica che l'aveva preceduta e che aveva sempre rifiutato qualunque ammissione di responsabilità.

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La "verità" di parte turca ascrive dunque alla legittima, ancorché feroce repressione di un nemico politico interno ciò che la comunità scientifica, in grande prevalenza, descrive invece come un progetto di annientamento di una minoranza etnico-religiosa. La misura dei massacri - 1,3 milioni di persone uccise, secondo le stime più accreditate - e il carattere indiscriminato della mattanza, rivolta non contro forze combattenti, ma contro l'intera popolazione civile, rendono questa pagina dolorosa l'antecedente storico prossimo e somigliante del genocidio del popolo ebraico.

Papa Francesco, parlando del genocidio armeno, non ha dunque evocato una tesi minoritaria o infondata, ma quella più giustificata e coerente con le categorie storiograficamente utilizzate per descrivere e interpretare fenomeni analoghi. Di fronte alla reazione delle autorità turche, che nelle parole del Ministro per gli affari europei hanno ampiamente superato il limite della denigrazione personale e dell'ingiuria razzista, l'omologo italiano di quest'ultimo, il sottosegretario Gozi, ha declinato la richiesta di prendere partito, e affermato l'inopportunità di una presa di posizione dell'esecutivo su un tema storicamente controverso ("Un governo non deve utilizzare la parola genocidio'', sic).

Al di là degli scivoloni e degli aggiustamenti della posizione del governo - è poi intervenuto il ministro degli esteri Gentiloni con un'evidente, ma molto diplomatica correzione di rotta, e una esplicita censura dei "toni ingiustificati di Ankara" - in questa vicenda il cuore del problema non è rappresentato dalla insensibilità del sottosegretario Gozi, ma dalla natura immediatamente politica della cosiddetta "verità storica", anche quando questa non è evocata con pretese di formale ufficialità, su tutte le principali questioni di fondo dell'equilibrio strategico globale e da una certa consolidata inclinazione alla derubricazione diplomatica del conflitto politico.

A suggerire la prudenza di Gozi non è stato il giustificato timore di accreditare una "verità di Stato", che precludesse la libera discussione storica, ma un'ancestrale paura, insegnata e appresa, a porre o discutere questioni di verità - a partire da quelle più obbliganti di tutte, cioè le verità di fatto - come condizione per la posizione e discussione di questioni politiche, nell'ambito delle relazioni tra stati o tra potenze.

In questo, la posizione tradizionale del nostro Paese evidentemente oggi non deroga da quella diffusa nell'Europa comunitaria, che interpreta la pace o la stabilità come rimozione fittizia delle ragioni reali di ostilità e instabilità politica. Il ginepraio medio-orientale è diventato concettualmente inaffrontabile per un'Europa programmaticamente agnostica su tutte le fondamentali questioni di diritto che si aprono un centimetro fuori dai suoi confini e intimamente persuasa di potere scampare al disordine civile e religioso "importato" solo accentuando una vocazione politicamente domestica, senza ambizioni strategiche né proiezioni ideali, e soprattutto senza responsabilità dirette nella gestione del dossier islamista. Per il Papa, invece, la "casa" cristiana si estende ben dentro i confini del medio-oriente islamico, tra i fedeli minacciati e perseguitati.

Il paradosso è che dunque in Europa è più semplice pronunciare verità scomode sul debito greco che sulla deriva autoritaria turca o sulla natura reale di regimi come quello di Teheran, che, auspice Obama, dovrebbero aiutarci a disinnescare la bomba del califfato transnazionale. A rendere più semplice o difficile, o, per meglio dire, "autorizzata" o "non autorizzata" la scelta di dire l'una e l'altra verità non è solo l'evidente differenza di peso strategico tra Atene e le grandi potenze dell'islam sunnita e sciita, ma anche l'illusione che la prima verità ci riguardi e la seconda no, perché fuori dal perimetro formale dell'Ue.

Malgrado i diversi toni del Ministro Gentiloni, che ha apertamente ammesso la relazione tra responsabilità politiche e militari e non a caso è finito nel mirino della propaganda islamista, l'Italia è un paese che interpreta da sempre in modo estremo il tradizionale agnosticismo politico europeo, nel presupposto che la nostra debolezza e vulnerabilità sarebbe aggravata dallo status di attore globale e dalla compromissione ideologica con una delle parti in conflitto. Da questo punto di vista - è il caso di dirlo - di fronte alle aggressive proteste turche, suggellate dal richiamo “ufficiale” e irridente di Erdogan al Pontefice, la posizione rinunciataria del sottosegretario Gozi o l'invito retorico alla riconciliazione del commissario Mogherini suonano perfettamente e coerentemente italiane e europee.

@carmelopalma