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Sembrava che tutto potesse girare a favore del presidente uscente Recep Tayyip Erdoğan, che ha concentrato nelle sue mani quasi tutto il potere che detiene ininterrottamente dal 2002, ma ci sono segnali sempre più evidenti che le elezioni presidenziali e parlamentari del 24 giugno non saranno una regata a vele spiegate per l'uomo forte della Turchia.

Con le prossime elezioni entreranno in vigore gli emendamenti costituzionali approvati col referendum dello scorso anno e vi sarà una trasformazione radicale delle istituzioni e della politica in Turchia. Chi vincerà sarà dotato di poteri quasi assoluti. Secondo le nuove riforme approvate la carica di primo ministro sarà abolita e le sue funzioni passeranno nelle mani del presidente della Repubblica che controllerà il Parlamento, la Magistratura, la Corte Costituzionale, sarà il capo delle Forze Armate e non vi saranno i necessari controlli e bilanciamenti, fondamentali in uno stato di diritto.

Non pochi analisti sostengono che queste elezioni per Erdoğan potrebbero rappresentare un boomerang perché paradossalmente egli, anche se dovesse vincere le presidenziali, potrebbe perdere la maggioranza assoluta e uscirne addirittura più indebolito di adesso: mentre ora il suo partito ha i numeri per far passare qualsiasi legge, con un Parlamento nelle mani dell’opposizione ciò non sarebbe più possibile e il presidente Erdoğan sarebbe costretto a dormire su un letto di spine parlamentari.

L'idea che il Parlamento turco, coll’introduzione del sistema presidenziale, sarebbe "espropriato di ogni potere", si fonda su un equivoco, sostiene Alan Makovsky, un altro alto dirigente del Center for American Progress, in un recente rapporto. Anche se il presidente concentrerebbe un amplissimo potere nelle sue mani, il Parlamento, tuttavia, conserverebbe la facoltà di emanare, emendare e abrogare le leggi; di discutere e approvare il bilancio e i conti pubblici; di stampare la Lira, dichiarare guerra e modificare i decreti presidenziali. "Almeno sulla carta", precisa Makovsky, le cose stanno così.

Il Parlamento, con l’introduzione del nuovo sistema presidenziale, potrebbe effettivamente essere svuotato di ogni potere solo se Erdoğan riuscisse a essere eletto presidente e se il suo partito riuscisse a mantenere la maggioranza assoluta dei seggi. Al momento l’Alleanza popolare, costituita dal Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP) e da due formazioni del nazionalismo estremo come quella erede dei Lupi Grigi del movimento nazionalista (MHP) e quella del Partito della grande unione (BBP), ultranazionalista e islamica, è data nei sondaggi tra il 41 e il 48%.

Non a caso l’aver indetto elezioni immediate non è altro che un colpo di "teatro attentamente orchestrato" da Erdoğan e da Bahçeli (leader del MHP), progettato per cogliere l'opposizione di sorpresa e per non attendere la scadenza naturale della legislatura fissata al 3 novembre 2019, perché è stata considerata dai suoi consiglieri una data troppo lontana a fronte del progressivo aggravarsi della crisi economica: fatto, questo, senza precedenti da quando, dal 2002, l’AKP è al governo del paese. La crescita del PIL è sì ancora elevata, ma lo sono anche il disavanzo delle partite correnti e l'inflazione, mentre continua in maniera inarrestabile il deprezzamento della Lira turca. La grave crisi della valuta turca costringerà Erdoğan a varare riforme dolorose in contraddizione con la sua retorica rassicurante e populista, ma ciò potrà permetterselo solo dopo il voto.

E dunque appare chiaro che queste "elezioni jet", o "raid elettorale", come le ha definite la stampa d’opposizione, sarebbero state anticipate al 24 giugno soprattutto per prendere tutta l’opposizione impreparata e per cataputarla in una campagna elettorale sotto lo stato di emergenza, con tutti i media radiotelevisivi, e con quasi tutti quelli della carta stampata, nelle mani del presidente turco. Si rischia, come per il referendum del 16 aprile 2017, di avere elezioni inique e non libere, caratterizzate anche dalla totale mancanza di trasparenza per un regolamento elettorale varato pochi mesi fa che esclude ogni possibilità di controllo impedendo ai rappresentanti dei partiti e alle organizzazioni non governative di sovraintendere alle operazioni di voto e allo spoglio elettorale, le quali saranno invece affidate a funzionari del governo e dunque all’AKP.

Ma, come vedremo, l’opposizione si è velocemente organizzata ed ha messo in piedi una squadra davvero agguerrita. E, anche se è esclusa dai media, fa un uso massiccio e intelligente dei social networks. Un esempio di ciò si è osservato l’8 maggio scorso, quando Erdoğan nel suo discorso in Parlamento aveva dichiarato: «Non sarà l’opposizione a mandarmi via, ma, se il popolo mi dirà “Tamam” – che in turco significa “Ok. Va bene così” – mi farò da parte». Questa espressione si è rivelata un boomerang per Erdoğan perché immediatamente ha suscitato la reazione sarcastica degli utenti dei social e in poche ore l’hashtag #TAMAM è diventato Trending Topic nel mondo con due milioni di Tweet.

Vi è da dire che tra i membri dell'AKP si percepisce un diffuso scoramento; sembra proprio che si stia diffondendo la sindrome del "management single", cioè dell’uomo solo al comando, e si intravedono "fessure nell'armatura" di Erdoğan che potrebbero fiaccare lo spirito combattivo dell'AKP, stanco di continue elezioni. Vi è in sostanza una percezione diffusa che a prendere tutte le decisioni siano il presidente turco e la sua ristretta cerchia di amici di famiglia e di affari e che il partito abbia perso molta della sua capacità decisionale e quindi della sua influenza.

La mancanza di motivazione tra la base e le alte sfere dell'AKP può influire negativamente sul rendimento del partito alle elezioni parlamentari, che sono spesso trascurate dagli osservatori perché quelle presidenziali sono ritenute più importanti. Quattro partiti, l’İYİ Parti (Partito Buono) di destra nazionalista moderato di Meral Akşener (frutto della scissione avvenuta nell’ottobre scorso anno dal MHP), il Partito repubblicano del popolo (CHP, il maggior partito d’opposizione, laico di sinistra), la piccola formazione islamica del Saadet Partisi e il piccolo partito di destra Demokrat Parti, hanno formato una coalizione denominata "Alleanza nazionale", in contrapposizione a quella del presidente turco.

Per la corsa alle presidenziali i partiti d’opposizione "marciano divisi per colpire uniti", per non ripetere l’errore delle presidenziali del 2014, quando, in assenza di un candidato forte comune, in grado di attrarre un ampio consenso trasversale, l’opposizione, allora CHP-MHP, decise di presentare un candidato esterno, che non riuscì a raccogliere nemmeno la somma dei voti dei due partiti. Ora l’obiettivo dei partiti di opposizione è di portare Erdoğan al turno di ballottaggio in cui giocarsi la partita decisiva

E dunque il maggior partito di opposizione, il socialdemocratico CHP, ha nominato Muharrem Ince come suo candidato alle presidenziali contro Erdoğan. Meral Akşener, ex ministro dell’Interno negli anni Novanta, è la candidata dell’İYİ Parti. Il Partito democratico dei popoli (HDP), di sinistra libertaria e filocurdo, ha schierato contro Erdoğan il suo leader carismatico, Selahattin Demirtaş, rinchiuso, dal 4 novembre 2016, nel carcere di massima sicurezzza di Edirne con l’accusa di sostegno al terrorismo curdo. Il Saadet Partisi, lo storico partito islamico, erede del Refah Partisi (Partito del Benessere) di Erbakan negli anni Novanta – da cui ha avuto origine l’AKP di Erdoğan – ha candidato il suo leader Temel Karamollaoğlu. E anche il leader kemalista, nazionalista antioccidentale Doğu Perinçek, presidente del Vatan Partisi (Parito della Patria), è candidato alle presidenziali.

Erdoğan dunque si troverà di fronte a cinque agguerritissimi concorrenti, ma l’insidia maggiore è rappresentata dalla pasionaria di destra Meral Akşener, che gode di un trasversale consenso popolare e che è in grado di attrarre non solo i voti degli elettori del suo ex partito nazionalista MHP, ora alleato di Erdoğan, ma anche quelli dei conservatori delusi dall’AKP e quelli dei kemalisti e dei nazionalisti del CHP. Attrarrebbe dunque voti dal sebatoio di tutti i partiti tranne che da quello curdo.

Altro concorrente rivelatosi in queste ultime ore particolarmente insidioso è il sanguigno Muharrem Ince, 54 anni, deputato di Yalova, nella regione del Mar di Marmara, ex insegnate di fisica, noto fino a poco tempo fa solo perché ha sfidato, perdendo, per ben due volte la leadership di Kılıçdaroğlu alla presidenza del CHP. Ince è una figura populista e sa come accendere le folle e ha lanciato con spavalderia la sua sfida a Erdoğan riuscendo a galvanizzare la base tradizionalista e secolare del CHP. In questi primi giorni di campagna elettorale Ince si è già contraddistinto per alcune importanti aperture, quella verso le masse religiose e quella verso i curdi. Racconta di essere stato allevato da genitori osservanti che lo mandarono a lezioni di Corano e lo fecero partecipare al massacro rituale delle pecore durante la Festa musulmana del sacrificio. "Sono il figlio rivoluzionario di una famiglia conservatrice", con queste parole si è presentato nel suo primo comizio a Yalova, davanti a decine di migliaia di persone che lo acclamavano. 

Ha subito affermato che il suo primo compito da presidente sarà quello di ripristinare lo stato di diritto e di "abbracciare tutta la società", nelle sue diverse espressioni etniche e religiose. Di essere vicino agli alevi, ai sunniti, agli armeni, ai curdi. Ripete che le prime tre cose che farà, se sarà eletto presidente, saranno: revocare lo stato di emergenza, liberare tutti i giornalisti arrestati ed eliminare il reato di insulto al presidente della Repubblica.

Ince chiede di poter accedere ai media: cosa questa che al momento non è consentita ai leader di opposizione; ha sfidato Erdoğan a un dibattito televisivo e ha anche infranto un tabù, annunciando una storica apertura ai curdi, impegnandosi a risolvere l’annosa questione attraverso il dialogo in parlamento: con "coraggio e coscienza", con "riconciliazione e dialogo"; "molti turchi si arrabbieranno, ma il problema dei curdi va risolto", ha affermato.

Questo è uno storico annuncio per due motivi. In primo luogo perché è la prima volta che il leader del maggior partito di opposizione laico, erede del kemalismo, apre pubblicamente ai curdi e si offre per la ripresa del dialogo. In secondo luogo perché si ritornerebbe, dopo tre anni, con la dura repressione che sta subendo il Partito democratico dei popoli e dopo quella avvenuta nel sudest anatolico e nel nord della Siria, ad una nuova fase di dialogo con i curdi. Fase interrotta nell’estate del 2015 e che non è destinata ad alcuna prospettiva di apertura dal momento che l’AKP si è alleato col movimento nazionalista di Bahçeli, anticurdo per eccellenza.

Ince rivendica il fatto di essere stato l’unico del suo partito, il CHP, che nel marzo del 2016 si era opposto alla abolizione dell’immunità parlamentare criticando duramente il suo partito per questa scelta sciagurata che aveva aperto la strada all’arresto di 11 deputati dell’HDP e alla perdita dello status di parlamentare per altri 8, accusati di sostegno al terrorismo curdo. Egli ha subito fatto visita a Demirtaş in prigione. E anche questo è un gesto denso di significato. "Le elezioni devono svolgersi in condizioni eque e libere e a Demirtaş va consentito di svolgere la sua campagna elettorale in libertà", va ripetendo il candidato del CHP.

"I curdi stanno seguendo Ince con grande interesse", dicono negli ambienti dell’HDP. Certamente voteranno Demirtaş al primo turno, ma se vi sarà un secondo turno, molti sarebbero disposti a far convergere il loro voto su di lui. Come nel 2015 affinché l’AKP perda la sua maggioranza è necessario che l'HDP superi la soglia di sbarramento del 10%. Il voto curdo dunque sarà anche questa volta di fondamentale importanza per le sorti della maggioranza dell’AKP e, se si dovesse andare ad un secondo turno, lo sarebbe anche per le presidenziali. In un eventuale ballottaggio contro Erdoğan, se vi dovesse essere Muharrem Ince, egli, a differenza di Akşener, raccoglierebbe anche il sostegno curdo. Dopo tutto, la reputazione di Akşener, come ex ministro degli Interni negli anni Novanta, è pessima agli occhi della maggior parte degli elettori curdi, a causa dei terribili massacri perpetrati nel sudest anatolico proprio negli anni in cui era ministro.

In conclusione, il quadro politico attuale suggerisce che l’elettorato dell'HDP sarà il vero ago della bilancia in entrambe le elezioni del 24 giugno, quelle parlamentari e quelle presidenziali.