Sul genocidio armeno una bella lezione tedesca. Anche di realpolitik
Istituzioni ed economia
Che bisogno aveva la Germania – si sarà chiesto qualche osservatore 'realista' – di provocare la Turchia sulla questione armena quando al governo di Ankara sono affidate le chiavi della porta che sbarra l’ingresso al cosiddetto corridoio balcanico, e dunque esso impedisce l’invasione di terra dell’Europa continentale da parte dei profughi in fuga dalla Siria e degli altri migranti e disperati che dall’Asia arrivano ai confini mediterranei del vecchio continente?
Che bisogno aveva la Merkel, che più di tutti gli altri leader europei ha scommesso – per ragioni interne, ma non solo – sul problematico e discutibile scambio politico con l’impresentabile Erdogan, di riaccendere il fuoco sotto una polemica storica che, al di là dei fatti, e dell’analisi scientifica dei fatti, evidentemente non muove passioni e sentimenti popolari e dunque suona fredda, strumentale e insincera?
Insomma, nell’autorizzare il Parlamento di Berlino a riconoscere il genocidio armeno e a fare ammenda per la quota di responsabilità tedesca nei crimini dell’alleato ottomano, la cancelliera è stata ingenua e debole oppure leggera e inaffidabile e comunque “fuori misura” rispetto agli impegni contratti, anche per conto dell’Ue, con Erdogan?
Azzardiamo tre risposte, che vanno tutte a onore della Merkel e della Germania.
In primo luogo, la Germania aveva bisogno di ristabilire la giusta distanza tra Berlino e Ankara, proprio in ragione dell’accordo spericolato con un regime che non ha più alcuna proiezione europea, ma conserva un minaccioso disegno di potenza anche sull’Europa. Non si tratta solo di un gesto simbolico, che riguarda il passato, ma di una piena dichiarazione di consapevolezza e di responsabilità rispetto ai pericoli presenti, che la Germania dichiara di vedere chiaramente, proprio nel momento in cui sceglie di correrli. Il nazionalismo turco, che l’islamismo di Erdogan aggrava di un minaccioso oltranzismo religioso, rimane osservato speciale e i vantaggi, che nel negoziato con la Germania e con l’Ue la Turchia oggi riesce a strappare, non rimuovono la consapevolezza né l’allarme per l’allontanamento di Ankara dai principi della democrazia costituzionale e dello stato di diritto.
In secondo luogo, Berlino, anche nella fase più instabile degli equilibri europei, ribadisce la persuasione che la verità sulle responsabilità storiche della Germania e dei suoi alleati rimane il presupposto inderogabile dell’identità politica tedesca. Su questo si è fondata la ricostruzione morale, civile e materiale della Germania federale dopo il nazismo; su questo – e sulla preventiva “auto-consegna” della Germania all’Europa – è stata possibile la riunificazione tedesca; su questo stesso presupposto la Germania pensa di dovere esercitare oggi la propria riluttante egemonia europea e di dovere intavolare le proprie relazioni internazionali, anche con la Turchia. E c’è solo da rallegrarsi che la prova di forza della Merkel con Erdogan sia sulla verità del genocidio armeno, piuttosto che su una delle tante piccole bugie e grandi menzogne su cui si giocano in genere le schermaglie politico-diplomatiche.
In terzo luogo, il fatto che una risoluzione a lungo rinviata sia stata iscritta all’ordine del giorno del Parlamento, con una Merkel assente, ma ufficialmente favorevole al testo, nel momento più delicato delle relazioni turco-tedesche è tutto fuorché una dimostrazione di ingenuità, o di leggerezza, ma piuttosto di realismo e di piena consapevolezza dei rischi e della posta in gioco nel rapporto con il sultano di Ankara.