Il sapere e il desiderio. Dialogo sul futuro del lavoro con Dario Odifreddi
Innovazione e mercato
Il tradizionale concerto di politiche che hanno caratterizzato il nostro fisco, il nostro sistema di istruzione e formazione, il nostro welfare va rifondato. È ormai evidente quanto rapidamente stiano cambiando le economie nazionali moderne ed i modelli produttivi italiani, europei ed occidentali; quindi immaginare come cambierà il lavoro diventa un tema cruciale per capire come rilanciarne valore economico e culturale. Lo scopo del lavoro è quello di guadagnarsi il tempo libero, insegnava Aristotele ai suoi allievi. Quanti oggi in Italia mettono al centro del dibattito il tema del lavoro come fattore di crescita economica e civile, smettendo approcci assistenziali e dirigisti? Ne parliamo con Dario Odifreddi che si occupa da molti anni di policies nei campi delle politiche industriali, del welfare e dei sistemi educativi. Dal 1994 è imprenditore nel campo della formazione e del lavoro. È presidente della Fondazione Piazza dei Mestieri, realtà formativa che promuove la preparazione e l’avviamento dei giovani al mondo lavoro. Qual è il bilancio della sua esperienza e cosa può suggerire in termini di policies?
Nel 2004 abbiamo dato vita alla Piazza dei Mestieri perché era evidente che lo scollamento sempre più profondo tra sistemi educativi e mondo imprenditoriale era una barriera all’entrata dei giovani nel mondo del lavoro; le conseguenze sono note, la continua crescita dei Neet, la lunghissima transizione tra il termine degli studi e l’inizio dell’esperienza lavorativa, il permanere di una concezione culturale antistorica contraria a ogni forma di alternanza secondo la quale prima si studia per vent’anni e poi si guarda al mondo del lavoro.
La Piazza dei Mestieri è il tentativo di creare le condizioni per superare lo scollamento. Lo abbiamo fatto creando un punto di educazione e di aggregazione per i giovani in cui fosse per loro possibile sperimentare un approccio positivo alla realtà, dall’apprendimento al lavoro, dal modo di usare il proprio tempo libero alla valorizzazione dei talenti di ciascuno. La Piazza è così diventa negli anni per questi ragazzi una casa, un posto amico in cui non c’è frammentazione tra l’apprendimento, la cultura, il tempo libero e il lavoro, un insieme integrato e coerente di spazi per l’accoglienza, la formazione e l’accompagnamento.
Nel 2004 i giovani coinvolti erano circa 300, oggi tra Torino e Catania sono circa 5.000 ogni anno. Ma il bilancio non è positivo solo per gli aspetti quantitativi, ma anche per il contemporaneo realizzarsi di alcune caratteristiche di tipo qualitativo che considero come fattori essenziali del modello ed elementi utili a definire nuove policies in campo educativo.
La prima potremmo definirla un’inclinazione all’apertura verso tutta la comunità territoriale, realizzata attraverso un dialogo con i diversi attori economici e sociali; tale dialogo, consolidato efficacemente già nella fase progettuale, ha portato durante questi anni alla valorizzazione di rapporti con realtà, persone, istituzioni, aziende con cui si è consolidata un’abitudine al lavoro comune, capace di innovare schemi organizzativi.
La seconda caratteristica, che forse è la scommessa più impegnativa e innovativa del modello di impresa sociale messo a punto dalla Piazza dei Mestieri, risiede nell’aver fatto convivere attività educative e attività produttive. Al termine del percorso formativo di qualifica o diploma professionale i ragazzi possono scegliere di continuare gli studi oppure di entrare nel mondo del lavoro. Non sono pochi quelli che in questi anni, avendo recuperato una passione per lo studio, hanno deciso di continuare gli studi, ma la maggior parte desidera andare a lavorare. Per prepararli a questo passo si è dato vita all’interno della Piazza a vere e proprie attività produttive in cui i ragazzi potessero fare un’esperienza reale e non simulata del lavoro; il ristorante, il Pub, la tipografia, il salone di acconciatura, il laboratorio del cioccolato, l’ITS ICT, sono nati da questa esigenza.
La duplice valenza di questi luoghi come ambito educativo e come soggetti economici (la cui attività è rivolta alla vendita di beni e servizi sul mercato) ne ha fatto in questi anni un’esperienza unica della possibile via italiana al sistema duale. In questo senso la Piazza, attraverso la riproposizione del ruolo dei mestieri e del valore educativo del lavoro, ha realizzato un modello di alternanza che senza soluzione di continuità, fa sì che attraverso l’esperienza concreta si consenta ai saperi generali di divenire conoscenze operative e permette, attraverso lo sviluppo delle conoscenze teoriche, l’acquisizione delle capacità di trasferire in situazioni diverse quanto appreso con l’attività pratica.
Infine una delle sfide affrontate sin dall’inizio è stata quella della sostenibilità del modello. Se infatti gli stakeholder del territorio sono stati essenziali nel sostenere la fase di star up dell’iniziativa e continuando a contribuire al sostegno di alcune attività (come quelle culturali e quelle di sostegno al diritto allo studio), altrettanto decisivo è risultato l’impegno dei fondatori ad assumersi la responsabilità circa l’autosufficienza economica e finanziaria per tutte le altre attività a partire da quelle produttive. La cosa da fare in più è in realtà continuare a apprendere dalla realtà, accettare le nuove sfide per restare sulla frontiera, lasciarsi correggere senza restare innamorati di quello che già si fa. La cosa da fare in meno è affidarsi ai sistemi di welfare pubblici, sempre più in crisi di strumenti prima ancora che di risorse, coinvolgendo invece tutte i soggetti privati interessati allo sviluppo del paese.
Non c’è investimento più decisivo di quello nell’istruzione. E non c’è paese che quando decresce demograficamente e deteriora il capitale di sapere disponibile non decresca economicamente, con redditi e produttività stagnanti, un basso tasso di partecipazione delle donne al mondo del lavoro, una PA arretrata ed una montagna di debito inarrestabile. In tale drammatico scenario la consapevolezza di quanto siamo responsabili del nostro futuro: perché scegliendo di puntare sull’educazione e sulla formazione costante ciò potrà cambiare?
Il tema del percorso educativo della persona e dei suoi legami con la creazione di ricchezza, non è di certo nuovo, esso attraversa tutta la storia del pensiero economico e si trova già esplicitamente trattato da Adam Smith, in Marshall e – in tempi più recenti – Kuznets, Schultz e Kendrick, affrontano il problema a partire dalle relazioni che si instaurano tra capitale umano e produttività tentando di porre in essere strumenti capaci di misurarne l’impatto e il ruolo nella capacità di generare ricchezza.
L’educazione è essenziale perché l’uomo non è riducibile a una concezione di tipo meccanicistico; la sua stessa capacità di generare valore in termini economici non dipende esclusivamente dalle sue competenze ed abilità; un ruolo fondamentale gioca infatti la scintilla che ne muove da sempre l’azione e che è rinvenibile nel suo desiderio di costruzione, di benessere, di giustizia, di verità e di bellezza. Una macchina si accende spingendo il bottone di un interruttore, un uomo si accende quanto più è acceso il suo desiderio: la valorizzazione dei suoi talenti non avviene meccanicamente, ma è frutto di una concezione della vita e più specificatamente di un’educazione. È questa un’accezione che si ritrova anche nel pensiero filosofico a partire da Aristotele e che caratterizza anche il pensiero della Chiesa a partire da San Tommaso e che attraversa tutta l’elaborazione della dottrina sociale della Chiesa.
Questa concezione di educazione è intesa come qualcosa che include l’istruzione, ma allo stesso tempo la supera. Mentre, infatti, l’istruzione segnala un percorso di apprendimento e un contenuto di “sapere” utile, imprescindibile – sebbene soggetto ad obsolescenza – l’educazione è la molla che mette l’io in azione, che consente al soggetto di apprendere. Non si tratta solo di fornire informazioni, nozioni, saperi, ma occorre aiutare ciascun ragazzo a scoprire il valore di se stesso, delle cose e della realtà, di mettere in moto la molla della curiosità.
Solo un uomo e una donna così educati possono affrontare le sfide di un cambiamento sempre più rapido, accettare le sfide della trasformazione, assumere una responsabilità verso le nuove generazioni impegnandosi a ridurre ilo fardello del debito e ultimamente trovare anche il coraggio di mettere al mondo dei figli.
Il livello di istruzione di un paese è uno dei fattori decisivi per il suo sviluppo, per favorire la mobilità sociale e per rendere possibile un welfare efficiente e funzionale. Come spiegare che non basta puntare sulla quantità ma è inevitabile alzare l’asticella della qualità nel nostro paese?
L’istruzione di massa è stata una molla fondamentale per garantire sviluppo economico e crescita dei redditi medi. Ma oggi vediamo chiaramente che questo non basta, nel nostro paese i redditi medi non crescono da decenni, tanti studi evidenziano che l’ascensore sociale si è fermato. Il problema non è solo il basso numero di laureati o gli alti livelli di dispersione scolastica, occorre innovare i processi educativi. Il recente seppur piccolo esempio dell’efficacia dei nuovi percorsi di istruzione terziaria non accademica (gli ITS) ne è un esempio positivo, il superamento definitivo di una concezione che contrappone teorie e téchne è essenziale per costruire percorsi educativi adeguati alle sfide dei tempi, introdurre reali sistemi di valutazione dei servizi educativi erogati e commisurare l’erogazione delle risorse economiche ai risultati raggiunti secondo criteri di merito è la base per la costruzione di un nuovo welfare sostenibile.
I Paesi che non sapranno innovare i processi educativi si troveranno sempre più spiazzati nella competizione globale. Velocità di cambiamento e complessità sono le caratteristiche principali del nostro tempo e chi saprà governarle ne beneficerà in termini di sviluppo economico e sociale. Ci sono traiettorie in buona parte già avviate e che godono di largo consenso, basti pensare al tema delle soft skills e dei character skills considerati i fattori abilitanti per poter gestire la complessità, o il tema delle competenze digitali che non afferiscono meramente a competenze operative e tecnologiche, ma più in generale a campi della logica, della semantica e della capacità interpretativa.
Se però su questi temi c’è ormai un’ampia letteratura, sembra ancora debole la capacità di guardare e di valorizzare quei tentativi già in atto in cui si sono già realizzate forme efficaci di innovazione in campo educativo. È questo un limite evidente di molti sistemi politici, tra cui quello del nostro Paese. Imparare dalla realtà, valutare efficacia e efficienza, rendere scalabili i modelli che funzionano, strutturare sistemi di valutazione dovrà essere una preoccupazione fondamentale di chi governa i sistemi educativi, ma anche di tutti i soggetti in qualche modo rilevanti nelle determinazioni delle policies di ogni paese. Ed è proprio l’allargamento della platea dei soggetti coinvolti in questa sfida che potrà portare a un welfare nuovo, meno assistenziale e più sostenibile. Studiare e diffondere i modelli che si stanno dimostrando come i più efficaci nell’innovare i sistemi educativi è anche la migliore modalità con cui spiegare in modo diffuso l’importanza di un salto qualitativo dell’intero Paese.
La disoccupazione giovanile in Italia è ormai un problema strutturale. Nell’ultimo decennio è esplosa raggiungendo tassi del 45% e al sud superiori al 50%. Quali sono le domande giuste da porsi per identificare le opportune soluzioni? Dispersione scolastica, mercato del lavoro e politiche attive del lavoro sono questioni sempre amaramente aperte ed usati spesso demagogicamente: come porre fine a ciò?
Innanzitutto dobbiamo combattere la dispersione scolastica e per fare questo si deve innovare come detto il sistema dell’istruzione, rafforzare l’alternanza scuola-lavoro, rendere strutturale la sperimentazione del sistema duale e il conseguente potenziamento dell’apprendistato di primo livello, rafforzare e ampliare la presenza delle Formazione professionale iniziale (I&FP) che ha dimostrato in questi anni nelle regioni in cui esiste di essere in grado di combattere la dispersione scolastica e di favorire l’inserimento lavorativo dei giovani. Contemporaneamente è necessario generare e rendere stabile un sistema di formazione terziaria non accademica che, come dimostrano i Paesi in cui è maggiormente presente, è in grado di creare quei profili che realmente servono alle imprese e di portare i giovani verso quelle competenze da tutti invocate del nuovo paradigma dell’industria 4.0.
L’altra grande, e per ora largamente disattesa, sfida è quella di dar vita a un mercato del lavoro dinamico che superi la visione novecentesca e si apra ai nuovi paradigmi che sempre più si affermeranno nei prossimi anni. Occorre costruire un sistema di politiche attive efficace e diffuso che è ancora al palo, serve un ripensamento degli strumenti per l’occupabilità come Garanzia Giovani e gli stessi fondi strutturali gestiti dalle Regioni, si deve finalmente spostare il baricentro dalle politiche passive a quelle attive.
Dal punto di vista culturale poi l’insistenza sul binomio lavoro a tempo indeterminato e precariato è un ulteriore retaggio della cultura del secolo scorso; si continua a ragionare come se fossimo nell’epoca fordista, mentre basterebbe guardare le serie storiche della mobilità dei lavoratori da un’azienda all’altra per capire che quel mondo non esiste più da anni e che mai tornerà. Il tema è invece quello di una giusta retribuzione e di un set di politiche che accompagni il lavoratore nella suo percorso fatto di cambiamenti e anche di periodi di inattività. Su questo aspetto pare decisiva un’innovazione che non riguarda solo le leggi, quanto piuttosto la capacità dei soggetti di rappresentanza di ripensarsi. Una contrattazione territoriale e aziendale meno vincolata da quella nazionale, una politica retributiva più legata alla produttività, una minor pressione fiscale sul lavoro con particolare attenzione a quello giovanile che rifugga da forme ondivaghe di decontribuzione che rischiano solo di generare distorsioni o successi effimeri di breve periodo, sono solo alcuni esempi di questo possibile percorso.
I robot ci toglieranno il lavoro e finiremo per tassare chi li produce per avere reddito con cui vivere: questa ed altre singolari previsioni di novelli Malthus animano il dibattito pubblico. Come far comprendere alle persone normali che il lavoro cambia da sempre e le cose mutano costantemente?
Siamo circondati da catastrofisti, ma questa non è una novità. Nel 1903, il presidente della Michigan, Savings Bank, per convincere l’avvocato di Henry Ford a non investire nella Ford Motor Company disse «Il cavallo è qui per restare. L’automobile è solo una moda passeggera». Negli stessi anni Keynes affermava che avremmo assistito a una crescita enorme della disoccupazione per via dello sviluppo tecnologico. Nel 1977, Ken Olsen, presidente di una delle più grandi aziende produttrici di computer al mondo, dichiarò che non c’era alcun motivo per cui un individuo dovesse avere un computer in casa. Tre decenni dopo, l’ex amministratore delegato di Microsoft, Steve Ballmer, era convinto che non ci fosse alcuna possibilità di mercato per l’iPhone. Nel 2008, l’amministratore delegato di Blockbuster, Jim Keyes, dichiarava che Netflix non era nemmeno sullo schermo del radar dei loro competitor. Nel 2015 Frey e Osborne affermano che Lo sviluppo tecnologico sempre più rapido (intelligenza artificiale) metterà nel prossimo decennio a rischio di elevata sostituzione il 47% della forza lavoro statunitense.
Questi esempi (e ce ne sono tanti altri) mi sembrano particolarmente efficaci per spiegare alle persone normali che ogni tempo ha le sue sfide e le sue crisi, ma la natura profonda dell’uomo è quella dell’avventura e solo l’avventuriero conoscerà la realtà e saprà cogliere le opportunità che essa ci offre, tra le quali certamente c’è anche la grande sfida dell’intelligenza artificiale e dei suoi sviluppi. Certo dovremmo imparare a vivere e crescere in un nuovo paradigma, ma anche questa volta troveremo la strada. L’importante è non ripiegarsi su se stessi, non accettare di far coincidere il lavoro con il reddito, non prefigurare lo spostamento da una repubblica fondata sul lavoro a una fondata sui consumi. Tutto questo si potrà fare solo se capiremo che la leva più rilevante per andare in questa direzione risiede proprio nell’educazione dei giovani.