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Quando è arrivata la spinta della legge 107/2015, io l’ho considerata una specie di manna dal cielo. E mi sono detta che quei commi (dal 33 al 43), quell’invito a far parlare di più e meglio la scuola con il mondo del lavoro era di estrema attualità, era moderno e pertanto necessario.

Non ho numeri da snocciolare sull’efficacia o meno del sistema dell’alternanza, ma ho presenti alcuni problemi che affliggono il nostro paese e che vivo sulla mia pelle quotidianamente, da imprenditrice, consulente, e genitore di figli adolescenti.

Uno tra tutti è la scarsa conoscenza che le nuove generazioni hanno del mercato del lavoro o, detto in parole ancora più semplici, del lavoro, delle logiche del lavoro, degli ambienti di lavoro, di cosa si fa, perché e come lo si fa, di cosa sia una fabbrica, un ufficio, un negozio, un call center, un laboratorio artigiano. Del perché le persone si sono messe in testa nella vita di lavorare e alcune addirittura di inventarsi un lavoro, di andarselo a cercare.

I miei figli (e posso dedurre, osservando amici e parenti, anche i loro coetanei), ne sanno davvero poco. Scoprono quella dimensione del “dovere” e del “mestiere” mediamente molto tardi, si sono fatti una loro idea, o se sono stati fortunati li ha aiutati a farsela qualche buona università o istituto tecnico superiore. Scelgono il loro destino professionale attraverso qualche sporadica intuizione, per trasmissione ereditaria (avvocati, notai, ecc) o qualche volta grazie a un insegnante appassionato (avendo esso il ruolo di mentore in un periodo chiave della vita dei nostri ragazzi) che li instrada, troppe volte su un cammino che ripercorre le logiche del pubblico impiego e dell’insegnamento. E così ci ritroviamo con un numero di laureati in materie umanistiche sovradimensionato e poco utile ad arricchire e far crescere il nostro tessuto economico.

Più difficile per uno studente incrociare sul proprio cammino il mentore ingegnere, medico, o anche solo operaio specializzato, commesso, artigiano, falegname, idraulico, difficile incrociare quella sapienza dei gesti che è il risultato di una passione, dell’esperienza o anche solo dell’accettazione di un destino. Avere l’opportunità di confrontarsi con questi mondi, sentirli raccontare, vederli funzionare da dentro è quasi impossibile se non nel momento stesso in cui i ragazzi decidono che quella sarà la loro strada.

Apprendere che le mie figlie avrebbero dovuto obbligatoriamente trascorrere ore “al lavoro”, è stata una gran bella notizia. Ho pensato che sarebbe stato finalmente l’inizio di un nuovo modo di considerare il rapporto scuola-lavoro, che sarebbe stata l’occasione per abbattere muri di pregiudizi (le aziende fanno solo profitto, non sono ambienti sicuri, sono luoghi di sfruttamento, e altri vari luoghi comuni di cui ancora purtroppo la scuola si nutre).

Certo, oggi si vive più di possibilità che non di garanzie. Sono finiti gli anni delle ideologie e delle scelte collettive, delle leggi e circolari che stabilivano nei minimi dettagli cosa fare e come interpretare il dettame legislativo. Uguale per tutti. E’ finita l’epoca in cui insieme alla legge si riceveva il vademecum e la circolare che spiegava per filo e per segno cosa fare. Potremmo discutere delle conseguenze di tutto ciò ma non è questa la sede. Ciò che a mio avviso si può fare è prenderne atto e trasformare quella rischiosa incertezza in un interessante spazio di libertà. Gestire la libertà certo non è semplice. Bisogna attrezzarsi, informarsi, cercare, studiare, incontrare, organizzare.

E così io mi sono attivata, ho condiviso con le mie figlie l’importanza di fare un’esperienza nuova e costruttiva nonostante la scuola suggerisse inizialmente di canalizzare i progetti di alternanza verso musei, biblioteche, enti pubblici (per motivi di sicurezza a loro dire). Ho chiamato a scuola, ho cercato le aziende, ho fato compilare i moduli, ho accompagnato Margherita e Olivia ai colloqui con i datori di lavoro.

Non l’ho fatto solo per loro. Per mestiere mi occupo di welfare e la mia azienda coordina una rete di aziende che insieme realizzano progetti di welfare e benessere nei luoghi di lavoro. Mi è sembrata una buona idea mettere in contatto le scuole con la Rete Eugenio e così ne è nato un progetto che coinvolge 4 licei e 10 tra le più importanti aziende mantovane (Corneliani, Lubiam, Novellini, Copiaincolla, Thun, Atelier Emé del gruppo Calzedonia, Messaggerie del Garda, Piscine Castiglione, Relevi….). Le classi di ragazzi vengono accompagnate da Randstad e Variazioni a conoscere i contesti aziendali, ad ascoltare i manager e infine a proporre soluzioni che diventano il progetto di alternanza che i ragazzi realizzeranno nelle stesse aziende.

Non tutto è perfetto, il percorso è in evoluzione, stiamo correggendo la tempistica, stiamo aiutando i ragazzi a scegliere il periodo migliore nel quale svolgere le ore lavorative, che per scelta degli istituti e in accordo con le aziende vengono collocati in orari e periodi extra-curricuolari (nei pomeriggi o durante l’estate).

Arrivano però anche feedback entusiastici. E arrivano anche da parte delle imprese che nonostante la fatica di preparare i progetti per gli studenti, dedicare tempo e risorse a loro, scoprono che la scuola, i ragazzi, le loro idee, possono essere linfa vitale, che il loro arrivo in azienda è per tutti una ventata di entusiasmo e novità, che le costringe a raccontarsi, e anche a migliorarsi.  In una città come Mantova, in piena crisi industriale, è molto importante fare employer branding ovvero far capire ai ragazzi che ci sono realtà produttive eccellenti, che fanno scuola a livello nazionale, che vale la pena considerare non tanto per evitare di espatriare (cosa normale e attraente per i nostri ragazzi più che un ripiego come si vuol far credere) ma semplicemente perché potrebbero rispondere alle loro ambizioni di carriera e di realizzazione professionale.

Dall’altra parte anche le scuole hanno acquisito sempre più fiducia cominciando a frequentare il mondo delle aziende attraverso i referenti per i progetti di alternanza di ogni istituto. E oggi, a due anni dall’inizio delle sperimentazioni, sono sempre più numerosi i ragazzi che scelgono contesti lavorativi privati.

Molto lavoro resta ancora da fare. Dal punto di vista organizzativo per le scuole è un grande impegno organizzare l’alternanza in modo che abbia un senso e che sia un’esperienza costruttiva. E’ forse questa la sfida più importante e difficile. Nessuno può spiegare a un insegnante o a un preside come rendere educativo, formativo, di valore ed efficace un percorso in un luogo che non conoscono, che funziona con logiche e dinamiche a loro spesso estranee e talvolta addirittura ostili.

Non si tratta solo di adempiere a un dettame legislativo ma di un salto culturale epocale, di un recupero del senso della scuola (che abbiamo pensato potesse vivere senza alcun legame con il mondo esterno) come luogo nel quale si impara la vita che c’è fuori e possibilmente anche un mestiere, a prescindere dal futuro a cui quella scuola prepara (sì perché anche chi frequenta il liceo finirà incredibilmente a fare un lavoro).

Si tratta di una fatica che riguarda tutti, che è la fatica del dialogo, dell’apprendimento, dell’umiltà ma anche la fatica della curiosità verso modi nuovi di concepire il proprio mestiere. Si tratta di accettare che in un contesto imperfetto, con regole incerte, possiamo fare due cose: stare fermi e aspettare che qualcuno faccia al notro posto la fatica di stabilire cosa va fatto oppure darci una visione di futuro, un sogno, un progetto e muoverci con i nostri mezzi verso quella direzione.

Non voglio credere che stiamo fermi per ripicca, o perché siamo anziani e rassegnati, e che rinunciamo alla magia della scoperta perché fino a ieri eravamo abituati a qualcuno che la costruiva per noi. Voglio invece pensare che serve tempo per abituarci a questa idea per cui siamo noi a dover provvedere responsabilmente a noi stessi, anche se questo significa dover rinunciare alla perfezione.