alitalia end

When a management with a reputation for brilliance tackles a business with a reputation for bad economics, it is the reputation of the business that remains intact”. Warren Buffett.

 

C’è una cosa difficile da comprendere: da quando, negli ultimi giorni, puntuale e prevedibile la questione Alitalia è tornata alla ribalta, si è assistito a un profluvio di articoli, interviste, dichiarazioni... intente a scandagliare le ragioni che avrebbero condotto l’infausta compagnia “di bandiera” all’ennesimo tracollo. “Meglio Air France”, “la colpa è dei manager”, “Montezemolo è sempre in mezzo quando succedono pasticci”, “sono i lavoratori a essere dei privilegiati”, “i contratti per il rifornimento di carburante sono troppo onerosi”, “mancano aerei di lungo raggio”, “la struttura azionaria non ha permesso lo sviluppo”… una ridda di osservazioni che potrebbe pure avere un qualche interesse per gli abbonati ad Aviation Week, ma alle quali, da cittadini e contribuenti, dovremmo rispondere con un sonoro “chissenefrega”!

Di Alitalia specificamente, in altre parole, cioè di un vettore regionale di second’ordine, per nulla strategico e strutturalmente incapace di competere, non ci deve importare nulla. Quello di cui preoccuparci, invece, è in primis, l’uso folle - non c’è altro termine disponibile -, che immancabilmente viene fatto del denaro proveniente dalle nostre tasse, in secundis, il trasporto aereo più in generale, questo sì strategico, e che non coincide con Alitalia.

Anche il migliore dei business plan è incerto e può fallire. Ciò che va impedito a tutti i costi, una volta e per sempre, è il salvataggio pubblico della compagnia, la tossica opzione put statale che nemmeno la tanto rimpianta soluzione francese avrebbe in alcun modo rimosso. Per come oggi funziona l’Italia, si può affermare - e non paia un’iperbole, non lo è davvero - che la liquidazione di Alitalia sarebbe la più grande e incisiva riforma strutturale concepibile, un segnale forte, un simbolo potente che invertirebbe la rotta rispetto al costume e alle pratiche che sono la causa prima del declino e della stagnazione, ricorrere all’intermediazione dello Stato per drenare risorse dal sistema produttivo e dirottarle verso sussidi e assistenza, distruggendo così, pezzo dopo pezzo, la competitività del paese.

Perché è proprio la necessità di sostenere un tale e perverso meccanismo che impedisce l’abbassamento della pressione fiscale, soffocando ogni possibilità di rilancio economico; perché è la sistematica ignoranza del fatto che le risorse sono scarse e che esistono dei trade-off nel loro impiego che ci ha portati sull’orlo del baratro.

E la nozione avanzata da più parti - commentatori, ministri - secondo cui, privo di Alitalia, lo Stivale scomparirebbe dalle mappe del turismo e degli affari è patentemente ridicola e financo assurda. E’ facile mostrarlo attraverso un paio di esempi recenti.

Quando Malév, vettore nazionale, fallì il 3 di febbraio del 2012, l’Ungheria perse di colpo una società che garantiva poco meno della metà dell’intero traffico sull’aeroporto della capitale. L’apocalisse, in pratica, se stessimo ad ascoltare la nostra classe politica. Nonostante ciò, dopo solo sei giorni, Budapest già aveva recuperato il 60% del traffico point-to-point precedente, grazie al rapido aumento di offerta operato dai competitor Wizz Air, Lufthansa, Ryanair, Air Berlin e Aegean Airlines. Il 2012 si chiuse con un calo complessivo di solo il 4.7% anno su anno. Quattro anni dopo, nel 2016 (ultimi dati disponibili), i passeggeri totali sono stati 11.4 milioni, un incremento del 30% rispetto all’ultimo periodo di operatività di Malév, un pozzo nero senza fondo che è ormai solo un lontano e triste ricordo.

Ancora più significativo, forse, è il caso di Barcellona. Dopo numerosi e vani salvataggi, anche in ragione della crisi spagnola, nello stesso 2012 l’amministrazione catalana decise di non ricapitalizzare Spanair, allora principale compagnia dell’aeroporto di El Prat. Da un giorno all’altro l’azienda cessò di esistere e i suoi aerei restarono a terra. Il dibattito pubblico si concentrò sulle ormai ben note profezie di sventura: il turismo andrà in crisi, Barcellona soffrirà, senza un vettore di bandiera gli arrivi si contrarranno drasticamente… la solita vituperevole canea priva di fondamento.

Nel 2012, infatti, da Barcellona transitarono circa 35 milioni di passeggeri, divenuti oltre 44 milioni a soli 4 anni di distanza, nel 2016, più di Fiumicino, più di Malpensa e Linate messe assieme. Barcellona è la terza città più visitata d’Europa, la decima al mondo - 8.2 milioni di presenze internazionali, oltre un milione in più di Milano e, soprattutto, di Roma con la sua “bella” Alitalia. Altre compagnie aeree si sono radicate e hanno almeno in parte riassorbito la forza lavoro della defunta Spanair. Vueling, in particolare, ha avuto uno sviluppo impetuoso, che è andato presto ben oltre i confini della Catalunya, ed El Prat si appresta a diventare la base per esperimenti innovativi, come quel trasporto aereo low cost intercontinentale che così a lungo ha eluso il settore.

Alitalia è l’epitome dello Stato italiano come svantaggio assoluto sulle spalle dell’Italia che produce. Prima sparirà dai radar, meglio sarà per tutti noi.