Quello liberale è un vuoto di realismo, nel paese delle favole
Istituzioni ed economia
Partendo da un articolo di Benedetto Della Vedova, apriamo una riflessione a più voci sulla paradossale impoliticità della proposta politica liberale in Italia. Critiche, autocritiche, analisi e impegni di autori diversi, più o meno interessati e partecipi alle sorti della "causa".
"Same-sex marriage [is] one of my proudest achievements”, ha ripetuto più volte il capo dei conservatori britannici David Cameron. In Italia, il grattacielo della regione economicamente più avanzata del paese, guidata da una coalizione di centro-destra, fa bella mostra delle sue improbabili luci discriminatorie.
In quasi tutti i grandi paesi europei che “funzionano”, in cui progresso civile e solidità economica sembrano procedere largamente insieme, non esistono - e storicamente non sono esistiti - partiti liberali autonomi di una qualche rilevanza, cioè davvero capaci di incidere. Certo, in Germania i liberal-democratici del Fdp di Guido Westerwelle hanno conseguito un discreto successo di voti nel 2009, ma sono poi rapidamente implosi, fino all’esclusione dal Bundestag nella tornata elettorale del 2013. Sorte non dissimile per i Lib Dems di Nick Clegg, anch’essi pressoché obliterati alle elezioni del maggio scorso in Gran Bretagna, dopo che nel 2010 avevano ottenuto 57 seggi alla House of Commons, e questo nonostante il sistema politico d’oltremanica paia per certi versi allontanarsi dal bipartitismo classico.
Se guardiamo alla storia europea, vediamo senza dubbio che nel nostro paese esiste un “vuoto liberale”, come lo ha definito Benedetto della Vedova, non già, però, inteso come l’assenza di una forza liberale indipendente e organizzata, quanto come l’incapacità dei grandi partiti e delle famiglie politiche tradizionali di ricomprenderne e farne proprie le istanze. In Italia, tale vuoto, tale voragine si sono manifestati primariamente non tanto nell’irrilevanza politica di pochi, fantomatici liberali, quanto nella pervicace illiberalità, tranne rarissime eccezioni, di destra e sinistra. Questo è il vero discrimine rispetto alle parti più avanzate del continente, la cui esperienza dovrebbe rendere molto scettici circa tentativi, peraltro già più volte naufragati, di trovare salvezza nell’isolamento un po’ rarefatto e autoreferenziale di un ipotetico movimento liberale a se stante.
Dopodiché, se da letture più strettamente strategico-organizzative, ci spostiamo a prendere in esame i contenuti veri e propri, seppur molte delle osservazioni di Simona Bonfante sui limiti della proposta liberale siano condivisibili, il vero scoglio che impedirà nel futuro prossimo ancor più che nel passato di darvi concretezza, soprattutto in ambito di politica economica, a me pare rappresentato dal rapporto con la verità che sarebbe necessario ristabilire perché ciò avvenisse, verità che il paese davvero non vuole ascoltare.
Oggi, in Italia, essere liberali significherebbe innanzitutto farsi latori di un messaggio spiacevole, assumere una sorta di realismo quasi tragico, che mal si accorda con lo storytelling prevalente. Significherebbe ingaggiare una lotta improba contro un passato che è un macigno sul futuro, contro una legacy che fornisce letteralmente da vivere e sostenta, direttamente o indirettamente, milioni di persone. Ed è molto probabile che i rapporti di forza numerici non lo consentano nemmeno più, nella terra dove ciò che sarebbe collettivamente razionale è spesso individualmente suicida, accomodati, come scrisse Carlo Levi, nell’alveo rassicurante di quella “grande organizzazione caritatevole per coloro che ne fanno parte” che è lo Stato, in cui “le spese della pubblica carità” sono pagate “da coloro che non ne fanno parte”. Lungo la storia repubblicana, il novero dei primi è andato ingrossandosi, quello dei secondi vieppiù assottigliandosi.
Servirebbe un grande wash-out di imprese e posti di lavoro, prodromo di una epocale riallocazione di risorse verso la parte produttiva che ancora sopravvive, in primis attraverso una riduzione secca e cospicua di prelievo fiscale. Servirebbero licenziamenti diffusi su scala ancora sconosciuta persino a un paese in crisi cronica, e riduzione delle prestazioni economiche, ovvero un significativo peggioramento del tenore di vita, per decine di migliaia di persone i cui compensi non sono nemmeno remotamente in linea con il valore aggiunto che sono (stati) in grado di garantire. Servirebbe ammettere che, per quanti soldi pubblici si vorrà continuare a riversarvi, l’urto della realtà alla fine investirà l’Ilva di Taranto, e molte altre consimili “imprese” tenute in vita artificialmente.
La riserva di “soavi licor” per addolcire “gli orli del vaso” si fa scarsa e chi propina versioni ireniche di uscita dalla crisi del paese semplicemente racconta frottole, ma è purtroppo molto difficile competere con le frottole. Un giorno, tuttavia, anche il tempo delle bugie finirà, verosimilmente quando finiranno le ultime risorse che tengono insieme un simile, perverso sistema. Forse allora i liberali potranno infine dire la propria, sapendo però che verranno forgiati in una molto probabile tempesta.