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Da almeno un decennio, per non dire del passato, il fallimento infinito di Alitalia si rispecchia nel fallimento infinito del sistema dei partiti per la gestione di una compagnia di bandiera, che deve sciagure e privilegi, in uguale misura, alla propria natura “politica”.

Da quando nel 2008 il Cavaliere sciovinista si oppose alla sua vendita ad Air France – se no, questa era la tesi, i turisti non sarebbero più atterrati nei pressi del Colosseo, ma sarebbero stati dirottati sulla Tour Eiffel – e chiamò a raccolta i “capitani coraggiosi” disponibili a investire (lucrare) sull’italianità della compagnia, sono cambiate alcune, ma non troppe cose, ma non è affatto cambiata l’abitudine a considerare Alitalia un’impresa “più uguale delle altre”, un problema che nei suoi risvolti finanziari, industriali e occupazionali merita una speciale attenzione da parte dei governi e un eccezionale dispiego di risorse pubbliche, dai prestiti ponte agli ammortizzatori sociali “su misura”.

Ora che i dipendenti di Alitalia hanno “democraticamente” rifiutato l’ennesimo piano di salvataggio (12 riposi in meno all’anno, l’8% di taglio della retribuzione e un migliaio di dipendenti in cassa integrazione, nonché un’ennesima garanzia pubblica di 200 milioni di parte di Invitalia), alla politica “democratica” è ovviamente richiesto di registrare questo diniego e di “riaprire il confronto”.

Tutto come al solito. L’eccezionalismo di Alitalia è lo specchio deformato dell’eccezionalismo italiano, la rappresentazione di un’anomalia che si fa normalità e che si trascina lungo il corso degli anni e dei decenni al punto da sembrare inevitabile, irrinunciabile e cronicamente consustanziata alla biografia della Nazione.

Oggi questo esecutivo, che ha il vantaggio di non avere più quattrini da buttare nella fornace di Alitalia (6 miliardi di euro dal 2008 a oggi) e di non potere più contare sulle solidarietà interessate di “patriottici” capitalisti di relazione, ha però anche l’opportunità di cambiare finalmente registro. Può fare, come si dice, di necessità virtù. Svolgere una normale attività di mediazione, come nelle principali crisi aziendali, ma non ritenere che lo Stato, in questo caso, sia il salvatore di ultima istanza, quasi che sugli aerei tricolore voli il destino del Paese e quindi imponga a Palazzo Chigi, al Mise o a uno dei suoi bracci finanziari una obbligata attività di supplenza. Trattare Alitalia come un’impresa qualunque, i suoi azionisti come azionisti qualunque e i suoi lavoratori come lavoratori qualunque. Fare la cosa più seria, cioè non fare più niente.

Se Alitalia sarà commissariata, troverà un partner industriale o un compratore, o sarà spezzettata e liquidata si tornerà, comunque, nell’alveo della normalità e della fisiologia politico-economica. Se ricomincerà il balletto delle trattative infinite per “salvare la compagnia”, si resterà invece nell’anomalia dell’Italia perdente e perduta di cui l’Alitalia di ieri e di oggi è uno dei più insigni e vergognosi monumenti.

@carmelopalma