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Il Governo è alle prese con l’esercizio della delega conferita dal Parlamento in merito alla cosiddetta Segnalazione Certificata di Inizio Attività. In base a quanto stabilito dalla legge n. 124 del 2015 l’esecutivo ha il compito di individuare i procedimenti oggetto di segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) o di silenzio assenso, di quelli per i quali è necessaria l’autorizzazione espressa ed infine di quelli per i quali è sufficiente una comunicazione preventiva.

Senza entrare nei tecnicismi, la finalità politica della delega è chiara. Individuare i procedimenti oggetto di SCIA significa definire chiaramente - e dunque ampliare e consolidare - il campo delle attività economiche che, secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato, sono consentite direttamente dalla legge in presenza dei presupposti normativamente stabiliti, e che, dunque, possono essere intraprese senza il bisogno di un consenso a monte dell’Amministrazione. Sempre secondo il Consiglio di Stato, infatti, la SCIA è uno strumento di liberalizzazione imperniato sulla diretta abilitazione legale delle famiglie e delle imprese ad esercitare immediatamente le attività che sono affrancate dal regime autorizzatorio.

Per questo tipo di attività l’Amministrazione non deve dare un assenso preventivo, ma compiere soltanto una verifica successiva in merito all’effettiva sussistenza, in capo al soggetto dichiarante/segnalante, dei requisiti previsti dalla legge. La portata politica dell’operazione è molto significativa soprattutto se si decide di non limitarsi a fare una ricognizione dei procedimenti esistenti. L’esercizio del potere di delega, infatti, dovrebbe essere l’occasione per fare i conti con il fatto che nel caso di molte attività private, per esempio quelle legate all’edilizia, la sovrapposizione di forme di regolazione (statale, regionale e locale) ed il modo nel quale quel potere di regolamentare è stato – e, come vedremo, continua ad essere – esercitato, rendono praticamente impossibile individuare, oltre ogni ragionevole dubbio, i presupposti stabiliti dalle norme, in presenza dei quali quel tipo di attività è consentita e dunque può essere avviata presentando soltanto una SCIA.

Per il momento il Governo ha deciso di non affrontare la sfida fondamentale contenuta nell’art. 5 della legge 124 del 2015.
Lo schema di decreto legislativo recante attuazione della delega in materia di segnalazione certificata di inizio attività - trasmesso alle Camere all’inizio di aprile - rinvia, infatti, a successivi decreti l’individuazione dei procedimenti oggetto di SCIA. Nella seduta del Consiglio dei Ministri del 15 giugno 2016 è stato avviato l’esame del decreto legislativo che dovrebbe contenere l’attesa ricognizione/individuazione delle attività private e dei relativi procedimenti abilitativi.

C’è da sperare che si colgano il significato ed il valore reali di una operazione di questo tipo - in tema di rovesciamento dei rapporti tra il cittadino e le pubbliche amministrazioni e di ridefinizione delle funzioni affidabili alla Pubblica Amministrazione – e dunque la necessità di incidere sulle forme di regolazione che rendono molto complicata la transizione di molte attività economiche private dal campo delle attività oggetto di provvedimenti autorizzatori a quello delle attività libere o meglio consentite dalla legge in presenza di presupposti chiaramente definiti; una transizione peraltro indispensabile, tenuto conto delle performance della nostra P.A., della necessità di attribuire a quest’ultima una missione appropriata ed infine di quanto l’Europa chiede sul piano della regolazione delle attività economiche (mantenere o istituire regimi autorizzatori solo se giustificati da motivi imperativi di interesse generale, nel rispetto dei principi di non discriminazione e di proporzionalità).

Ma se guardiamo a ciò che succede, nel frattempo, in Parlamento, con il beneplacito del Governo, viene il dubbio che non ci si stia preparando al meglio alla sfida. Si consideri, a titolo esemplificativo, una disposizione approvata durante l’esame del famigerato disegno di legge sul contenimento del consumo di suolo.

Con un emendamento approvato dall’Assemblea di Montecitorio con parere favorevole dei relatori e del rappresentante del Governo è stata inserita all’art. 4 una previsione in base alla quale i comuni – sulla base di ulteriori disposizioni che verranno dettate dalle regioni - dovrebbero redigere “un censimento degli edifici e delle aree dismesse, non utilizzate o abbandonate esistenti” attraverso il quale verificare “se le previsioni urbanistiche che comportano consumo di suolo (e dunque secondo la definizione contenuta nell’art.2 della stessa legge approvata dalla Camera “qualunque intervento di impermeabilizzazione, urbanizzazione ed edificazione non connessi all'attività agricola”) “possano essere soddisfatte attraverso interventi di rigenerazione”.

 

A parte ogni altra valutazione sul grado di ideologicità e di ineffettività della previsione normativa, non si può non sottolineare come in presenza di una disposizione di questo tipo divenga impossibile attestare che sussistono tutte le condizioni previste dalla normativa per poter avviare, per esempio, un intervento non particolarmente complesso quale la realizzazione di un edificio all’interno di un lotto fino a quel momento non urbanizzato/impermeabilizzato - ma collocato all’interno del perimetro di un centro abitato o magari ai suoi margini – che la pianificazione urbanistica locale vigente classifica come edificabile.

 

Per farlo, il dichiarante ed il tecnico che lo assiste non soltanto dovrebbero attestare la conformità alle previsioni urbanistiche ed il rispetto delle normative vigenti, ma dovrebbero trovare anche il modo (non si sa bene come) di dimostrare, altresì, che quella previsione urbanistica (e dunque la possibilità di trasformare un terreno del quale ha la disponibilità) non possa essere soddisfatta attraverso una non meglio precisata operazione di rigenerazione avente come oggetto uno degli edifici e/o delle aree dismesse, non utilizzate o abbandonate esistenti di proprietà di terzi che, nel frattempo, dovrebbero essere state censite dal Comune.

 

Come potranno farlo? Basterà dire che i proprietari delle aree o degli edifici dismessi o abbandonati inseriti nel censimento predisposto dai Comuni non hanno intenzione di venderli o che li hanno messi sul mercato a prezzi e condizioni tali da rendere l’intervento edilizio insostenibile, o anche solo molto poco conveniente? Sarà sufficiente dimostrare che la regione non ha ancora approvato la norma di attuazione e/o che il Comune non ha ancora predisposto il censimento?

 

E nel caso in cui nel censimento fossero inseriti soltanto aree od edifici dismessi di proprietà pubblica - cosa che i Comuni e/o i proprietari pubblici avrebbero tutto l’interesse a fare visto che sarebbe un modo per controllare l’offerta dei cosiddetti beni “da rigenerare” e dunque aumentare il valore di mercato di beni di loro proprietà e condizionare il mercato - un cittadino come potrà dimostrare che non si può “soddisfare” diversamente la previsione urbanistica e dunque che l’intervento edilizio all’interno del fondo del quale è proprietario è realizzabile? Sarà sufficiente attestare, per esempio, che il Comune o l’altro ente pubblico proprietario non ha ancora deciso se procedere alla loro alienazione o meno, oppure che il bando pubblicato per la cessione delle aree o degli edifici è stato ritirato dopo una segnalazione dell’ANAC ovvero annullato dal Consiglio di Stato? Attraverso questi esempi – neanche troppo paradossali – si può vedere come non solo non sembra si sia imboccata con la necessaria determinazione la strada tracciata al momento dell’approvazione della legge delega, ma si continui a “normare” in una direzione contraria.

Quanto poi alla previsione normativa – inserita con lo stesso emendamento - secondo la quale la redazione del censimento sarebbe presupposto necessario e vincolante per l’eventuale pianificazione di nuovo consumo suolo, e dunque per prevedere, come già evidenziato, interventi di impermeabilizzazione, urbanizzazione ed edificazione non connessi all'attività agricola, diventa davvero difficile comprendere quale sia l’impatto atteso dal legislatore. Il territorio italiano è, allo stato attuale, integralmente pianificato e dunque coperto da previsioni urbanistiche adottate ed approvate in base alle diverse normative regionali vigenti.

 

Pertanto, o si pensa davvero che stabilire - con una votazione parlamentare - che non si pianifica nuovo consumo di suolo senza aver predisposto preventivamente il censimento delle aree e degli edifici abbandonati possa determinare, implicitamente, un immediato congelamento/annullamento delle previsioni urbanistiche ad oggi vigenti (e dunque anche di quelle che ammettono la possibilità di trasformare suolo non ancora urbanizzato), oppure si sta utilizzando il Parlamento un po’ come uno strumento social, per rendere noto uno status e far sapere cosa si ritiene desiderabile ed incassare, di conseguenza, qualche like a seconda della popolarità della presa di posizione.

 

C’è da sperare che sia diverso lo spirito con il quale il Governo affronterà il cuore della delega contenuta nell’art. 5 della legge 124/2015. Ciò che è necessario non sono interventi normativi di questo tipo che sovrappongono e giustappongono forme di regolazione statale, regionale e locale e mere declamazioni ideologiche. Occorrono disposizioni volte ad ampliare il campo delle attività economiche per le quali sarà sufficiente presentare una comunicazione preventiva (o neanche quella) e di quelle per le quali potrà valere il silenzio assenso.

 

E quel che è ancora più necessario è uno sforzo volto a creare le condizioni complessive (di sistema) perché aumentino il numero e la rilevanza delle attività “liberalizzate”, ossia di quelle attività consentite direttamente dalla legge in presenza di presupposti e requisiti che il quadro normativo vigente deve definire in modo chiaro ed univoco, in modo tale che sia possibile verificarne la sussistenza sia al momento della presentazione della segnalazione certificata di inizio attività da parte della famiglia o dell’impresa, sia nel periodo successivo - necessariamente stretto - entro il quale l’Amministrazione può eventualmente adottare atti inibitori repressivi o conformativi, sia nel caso in cui un terzo, che si dovesse sentire leso dall’avvio dell’attività, dovesse chiedere al giudice di compiere un’ulteriore verifica sull’esistenza o meno dei requisiti previsti dalla legge.