Consumo di suolo: per un'intesa servono dati certi
Innovazione e mercato
A proposito dei dati e delle serie storiche sul cosiddetto consumo di suolo esposti periodicamente nei principali quotidiani, sono molto utili le parole di una studiosa, come Paola Bonora, della quale il ricco Atlante del consumo di suolo, pubblicato dalla casa editrice Baskerville, testimonia ogni estraneità a tesi negazioniste rispetto allo stesso fenomeno.
A pagina 17 dell’Atlante, Paola Bonora scrive “La quantificazione del consumo di suolo, in assenza di misurazioni ufficiali e metodologicamente condivise, deve attingere a fonti diverse non omologhe. Un vuoto conoscitivo che ci costringe ad utilizzare dati che, nati per scopi diversi, forniscono risultati che, specie nelle serie storiche, sono approssimate per difetto” E alla stessa pagina, precisa ulteriormente che “gli strumenti di rilevazione e il loro grado di finezza, ossia la grandezza della maglia di acquisizione dei dati, giocano un ruolo determinante. Per questo motivo le cifre sul consumo di suolo sono diverse a seconda delle fonti. Una difformità cui si dovrà porre rimedio attraverso l’avvio di monitoraggi ufficiali sia su scala nazionale che locale se si vogliono avviare politiche di contenimento e di controllo”
Questa considerazione è particolarmente rilevante soprattutto se si considera che la legge in materia di valorizzazione della aree agricole e di contenimento del consumo di suolo, in discussione alla Camera, non individua un obiettivo quantitativo, in termini di ettari di suolo consumabili ogni anno rispetto a una data prestabilita - i 30 ettari al giorno entro il 2020 stabiliti dall’allora Ministro dell’Ambiente tedesco Angela Merkel a metà degli anni ’90 e confermati dai governi successivi, come ricostruito nel saggio di Silvia Zamboni nel citato Atlante sul consumo di suolo - ma affida al redivivo Ministro delle Politiche Agricole il compito di fissare il tasso percentuale di riduzione dell’incremento annuale netto della superficie oggetto di interventi di impermeabilizzazione.
Eppure, a proposito della qualità dei dati disponibili, Paola Bonora a pagina 11 dell’Atlante osserva ancora: “nonostante negli ultimi anni, da parte di istituzioni pubbliche di ricerca a partire dalla sede europea fino a livello regionale, si siano sviluppate indagini tese a monitorare l’uso del suolo – l’adozione di strumenti e metodologie difformi non consente la confrontabilità dei dati e obbliga a continue precisazioni sui criteri adottati”.
Tutto ciò porta a rilevare che, a prescindere dalle riserve sull’impostazione complessiva della legge in discussione alla Camera e sull’indeterminatezza del processo che ne dovrebbe assicurare l’effettiva applicazione, per il Ministro delle Politiche Agricole Martina sarà difficile svolgere credibilmente - e soprattutto con l’urgenza che tutti, almeno a parole, esigono – il compito assegnatogli dall’articolo 3 della norma.
Il Ministro, infatti, deve determinare la riduzione progressiva vincolante, in termini quantitativi, di consumo di suolo a livello nazionale. Il termine scelto, “riduzione”, impone di per sé il confronto con un termine di riferimento che dovrebbe essere certo ed accettato, viste le conseguenze che dall’atto ministeriale dovrebbero discendere.
E, se per nutrire dei dubbi sulla disponibilità di un credibile dato di partenza rilevato all’anno 0 - quello dell’approvazione della legge - non bastassero le osservazioni riportate in precedenza, vanno anche considerate le definizioni che l’articolo 2 della norma in questione contiene. In base alla legge, infatti, per consumo di suolo si dovrà intendere “l’incremento annuale netto della superficie agricola naturale e seminaturale soggetta a interventi di impermeabilizzazione”. Ciò significa che il Ministro dovrebbe definire la riduzione progressiva, non in termini percentuali ma quantitativi, dell’incremento annuale della superficie impermeabilizzabile, a partire da quella che al momento dell’entrata in vigore della legge è classificabile come superficie agricola naturale e seminaturale.
Per farlo, il Ministro dovrebbe avere non solo un dato sull’incremento annuale della superficie rilevabile all’anno 0 e/o rispetto a un arco temporale peraltro non predefinito, e su quello tendenziale, che si avrebbe senza il contingentamento, ma anche sulla consistenza dello stock della superficie agricola naturale e seminaturale, classificabile come tale stando alla definizione di quest’ultima fornita all’articolo 2 della norma, sempre al fatidico anno 0.
E la cosa è tutt’altro che semplice visto che, in base alla definizione fornita nel testo in discussione, la superficie agricola naturale e seminaturale è costituita da terreni classificati come agricoli dagli strumenti urbanistici, nonché dalle altre superfici non impermeabilizzate alla data di entrata in vigore della legge, fatta eccezione per le superfici destinate a servizi pubblici di livello generale e locale previste dagli strumenti urbanistici vigenti nonché per i lotti e per gli spazi inedificati interclusi già dotati di opere di urbanizzazione primaria.
Ricostruire lo stock di superficie agricola naturale e seminaturale, sulla base di questa definizione, è un’operazione che necessita di processare una quantità indeterminata di informazioni, sia sullo stato attuale dei luoghi, sia sulle molteplici e non omogenee definizioni (ci sono 20 sistemi di pianificazione regionali e migliaia di forme di regolazione locale) dei regimi giuridici attribuiti alle aree agricole e/o non impermeabilizzate, e sulle altrettante svariate e diversificate forme di classificazione di queste ultime, fatte in sede di pianificazione urbanistica locale.
Uno sforzo conoscitivo così ampio ed esteso non solo presupporrebbe una disponibilità di risorse e di tempo – che, invece, non vengono affatto messi a disposizione - ma non assicurerebbe la restituzione del dato sufficientemente attendibile e certo del quale avrebbe bisogno il Ministro delle Politiche Agricole per partire: il numero di ettari classificabili come superficie agricola naturale e seminaturale, rispetto al quale disporre il contingentamento degli interventi di impermeabilizzazione.
Con le informazioni a disposizione non si arriva a questo dato. E ciò è confermato dal legislatore stesso, che all’art. 3 comma 7 prevede che i Ministri delle Politiche Agricole e dell’Ambiente adottino, entro 3 mesi dall’approvazione della legge, una Direttiva per definire le modalità e i criteri per il monitoraggio della riduzione del consumo. È il legislatore, dunque, ad ammettere che prima dell’entrata in vigore della legge - e dunque prima della messa in moto del complesso procedimento previsto dall’articolo e dal regime transitorio descritto nell’articolo 10 – non si dispone di modalità e di criteri riconosciuti per monitorare l’uso del suolo e dunque non si hanno quei dati realmente descrittivi del fenomeno che chi intende governarlo dovrebbe avere.
Questa disposizione – senza che ce ne fosse bisogno – conferma che con i dati a disposizione si possono tutt’al più costruire evocative aperture di pagina di Repubblica da parte di illustri accademici e studiosi, archeologi e storici dell’arte che, a quanto pare, quando fanno incursioni in campi disciplinari diversi da quello di riferimento, ritengono poco rilevanti i problemi di metodo e di affidabilità degli elementi conoscitivi di base, ben presenti invece a una studiosa del fenomeno come Paola Bonora.
Per questo, se non si vogliono usare armi spuntate, ma si intende davvero riordinare gerarchicamente (cosa già piuttosto difficile in Italia) le azioni, pubbliche e private, riferite al territorio, in funzione dell’obiettivo di contenere l’uso del suolo, e riequilibrare il rapporto tra insediamenti umani e ambiente, occorre riflettere sull’utilizzo di uno strumento diverso dalla tanto agognata legge, vale a dire l’Intesa tra il Governo, le Regioni e gli enti locali, prevista dall’articolo 8 della legge 131 del 2003.
Si tratta di un dispositivo istituzionale che il Governo può promuovere con lo scopo di “favorire l'armonizzazione delle rispettive legislazioni o il raggiungimento di posizioni unitarie o il conseguimento di obiettivi comuni”. Al di là dei tecnicismi, è uno strumento messo a punto in sede di Conferenza Unificata e utilizzato, per esempio, per promuovere il varo dell’operazione, meglio nota come Piano Casa, finalizzata alla promozione, attraverso modifiche alla legislazione regionale e statale, di interventi sul patrimonio edilizio esistente. Uno strumento grazie al quale il Governo può favorire l'armonizzazione della legislazione, il raggiungimento di posizioni unitarie e il conseguimento di obiettivi comuni.
Con un atto di questa natura – che presupporrebbe, e dimostrerebbe, una significativa assunzione di responsabilità rispetto alla questione - sarebbe possibile da una parte definire, in modo congiunto e coordinato, un quadro di riferimento iniziale condiviso e un insieme di obiettivi comuni, per esempio in termini di quantità di aree non urbanizzate ancora utilizzabili (come in Germania), e/o di abitazioni e insediamenti da rifunzionalizzare ovvero di aree delle quali recuperare la naturalità, di aree verdi da acquisire e rendere fruibili; dall’altra, promuovere e coordinare l’adeguamento delle norme statali, regionali e locali che rilevano ai fini di una efficace politica di utilizzo parsimonioso del suolo.
Con l’Intesa, lo Stato e le Regioni potrebbero concordare e dispiegare un’organica e convergente azione riformatrice, finalizzata al riequilibrio del rapporto tra matrici ambientali e insediamenti antropici, con tempi meno dilatati di quelli previsti dalla legge in discussione alla Camera. In base, infatti, ai tempi dettati dall’articolo 3 della norma - giova ricordarlo a chi parla di “emergenza” e della necessità di non perdere tempo - le Regioni “dispongono (non si sa bene in che modo e con quale strumento vista la natura polisemica del termine scelto dal legislatore, NdA) la riduzione in termini quantitativi del consumo di suolo e determinano i criteri e le modalità da rispettare nella pianificazione urbanistica comunale” non prima di 2 anni dall’approvazione della legge, se tutto va bene, e se il Consiglio dei Ministri attiva i poteri sostitutivi in caso di inadempimenti durante l’articolato procedimento descritto nell’articolo 3.
Tornando ai contenuti possibili della necessaria azione riformatrice, si deve considerare che l’Intesa dovrà guardare alla rimodulazione dei contributi di costruzione, all’introduzione di obblighi a carico degli operatori per interventi su aree libere (intervenendo, come fatto in Germania, sul Testo Unico delle disposizioni in materia di edilizia), e a una più omogenea regolazione dell’attività edilizia (attraverso modifiche del Testo Unico dell’Edilizia) ma anche e soprattutto grazie all’adozione di un Regolamento Edilizio Unificato) che agevoli, con una sorta di “Piano Casa” permanente, la realizzazione di interventi per il recupero e il riuso del patrimonio esistente, ammettendo densificazioni ove possibile, ma senza trascurare gli insediamenti diffusi che connotano il nostro territorio.
L’operazione riformatrice, disegnabile con l’Intesa, dovrà estendersi anche all’aggiornamento della disciplina degli standard urbanistici, aggiornando – o, se e dove necessario, facendo saltare in modo definitivo e non attraverso le procedure derogatorie via via introdotte - i rapporti rigidi tra abitanti insediati e dotazioni urbanistiche (per esempio i parcheggi pubblici) contenuti nel D.M. 1444/1968, che da un lato hanno contribuito e contribuiscono alla copertura del suolo, e dall’altro impediscono o rendono più costose e complesse eventuali operazioni di recupero e riuso all’interno dei centri abitati.
Con l’Intesa sarà anche possibile costruire e dettare i tempi per il rafforzamento e l’estensione necessari del campo di applicazione delle procedure valutative, previste dal Testo Unico sull’Ambiente e dalla normativa regionale, così come procedere a un progressivo allineamento dei sistemi regionali di pianificazione rispetto agli obiettivi enunciati e condivisi al momento della sottoscrizione dell’Intesa.
L’Intesa, che per sua natura può avere contenuti non solo regolativi ma anche programmatici, dunque riferibili all’impiego delle non molte risorse disponibili, potrebbe – dovrebbe - trovare anche il modo per innescare meccanismi che contribuiscano a rendere gli interventi sul patrimonio edilizio e la città esistenti non solo equi, e dunque capaci di aumentare le dotazioni territoriali disponibili (edilizia residenziale pubblica, housing sociale, attrezzature pubbliche, etc.), ma anche efficaci e sostenibili, perché capaci di assicurare agli operatori (istituzionali e non, pubblici e privati, non c’è differenza) il raggiungimento di adeguati livelli di remunerazione degli investimenti.
Un’operazione di questo tipo non costituirebbe un passo indietro rispetto all’approvazione della legge in discussione, ma rappresenterebbe, piuttosto, un potenziale passo in avanti, soprattutto rispetto alla possibilità, o meglio alla necessità, di dotare il paese di una politica pubblica territoriale finalizzata a un uso parsimonioso del suolo.
Come è noto, infatti, un problema sociale nasce dalla distanza tra la realtà e una situazione ideale definita in base a un giudizio morale, e diventa un problema politico e oggetto di politiche (e non solo di campagne di stampa) quando entra nell’agenda politica.
Per questa ragione, da un lato è necessario che la distanza tra la realtà e ciò che si stabilisce sia giusto perseguire possa essere misurata con dati affidabili e in grado di persuadere razionalmente i soggetti coinvolti, e dall’altro è necessario che il problema sociale, correttamente definito e misurato, trovi, una volta entrato nell’agenda politica, risposte appropriate e concretamente sperimentabili e realizzabili, e non solo e non tanto proclamazioni, per via legislativa, di intenzioni e buoni propositi e/o di presunte “soluzioni”.