Olio d'oliva: sicuri che quello estero non ci serva?
Innovazione e mercato
Non sono un intenditore di olio, come forse il 90% dei consumatori. Certo, so riconoscere un extravergine di oliva da un olio di semi di arachidi, ed anche un extravergine di ottima qualità rispetto a un extravergine da discount. Molto di più non riesco a fare. Per questa ragione, al supermercato scelgo l'extravergine di oliva ma non per forza 100% italiano.
Acquisto marchi noti che sull'etichetta mostrano la dicitura "oli comunitari". So, insomma, di consumare olio misto italiano, greco, spagnolo. E non me ne preoccupo, perché mi sento cittadino europeo e perché le mie conoscenze sul clima mi suggeriscono che le campagne greche non hanno nulla da invidiare alle colline toscane.
Comprendo chi, come Coldiretti, si concentra invece sulla difesa del "Made in Italy" agricolo senza se e senza ma. Tuttavia il punto di vista di Coldiretti è necessariamente parziale ed anche incurante del fatto che consumiamo molto più olio di quanto riusciamo a produrne. L'ultima stoccata di Coldiretti è contro la Tunisia, un Paese che condivide il clima mediterraneo con il sud Europa. Un Paese povero, che si affida ad un'agricoltura parcellizzata, con disoccupazione elevata e un turismo che cala di anno in anno.
L'estate 2015 si preannuncia ancor più disastrosa dopo l'attentato al Museo del Bardo: basta poco per far crescere la paura in milioni di turisti, di cui qualche centinaio di migliaia italiani. Località come Hammamet o Djerba restano sicure, così come i percorsi degli affascinanti tour in mezzo al deserto, ma il turista medio preferisce scegliere altre mete. Deserto, dromedari, suk e mare si trovano anche altrove, in fondo. In questo quadro, Coldiretti denuncia l'aumento del 681% di impotanzione di olio di oliva dalla Tunisia all'Italia nel primo trimestre 2015, ovvero una quantità quasi otto volte superiore a quella dello stesso periodo dell'anno precedente. La Tunisia diventa il terzo fornitore italiano dopo Grecia e Spagna.
L'impennata è stata favorita però dal drastico calo della produzione nostrana nel 2014, scesa sotto le 300 mila tonnellate a causa del pessimo raccolto dovuto alle eccezionali condizioni climatiche (con piogge per tutta l'estate), mentre il nostro consumo interno supera abbondantemente le 600.000 tonnellate l'anno. Come spesso accade, si dà per scontato che vada tutelata la produzione nazionale a prescindere da ogni altro ragionamento, di prezzo e di qualità. Sotto accusa – si legge in un comunicato di Coldiretti – la "parvenza di italianità da sfruttare sui mercati" attraverso immagini in etichetta (le bandierine italiane), dove l'indicazione di provenienza c'è ma spesso difficile da trovare e da leggere. Così il consumatore potrebbe acquistare l'olio di un grande marchio italiano supponendo che di olio italiano si tratti. Vero, il rischio c'è. Ma sfidiamo i consumatori, posti di fronte all'evidenza che trattasi magari di "olio comunitario", a trovare la differenza.
In altri termini: o si costruiscono generazioni di consumatori esperti di olio, come forse erano i nostri nonni e bisnonni e come in parte (ma solo in parte) è per il vino o il Parmigiano Reggiano, oppure ci si adegua all'idea che, per la quasi totalità delle persone, l'olio italiano e quello spagnolo o tunisino "pari sono". Quanto al prezzo, la sua "protezione" è un argomento da bilanciare. Da una parte è l'unica salvezza per i produttori, che altrimenti semplicemente spariscono, e questo discorso vale per l'olio come per il latte e ogni altro prodotto della terra. Dall'altra, però, l'equazione "spendo di più, mangio meglio" non è affatto scontata. E non tutti i consumatori possono permettersi di pagare i generi alimentari "di base" a caro prezzo. Per dare qualche cifra: nella seconda settimana di giugno 2015, il prezzo dell'extravergine spagnolo è 3,60 euro/Kg. Quello greco si ferma a 3,39 euro/Kg, per quello tunisino occorrono 3,43 euro/Kg. Quello italiano, ad aprile 2015, è arrivato a costare oltre 6 euro/Kg, in ragione della scarsità di prodotto disponibile.
Sembra quindi chiaro il quadro: da una parte abbiamo bisogno di olio estero perché la nostra produzione non ci basta (e in parte viene anche esportata); dall'altra, il nostro olio costa caro. Sarebbe dunque auspicabile, piuttosto che strillare all'invasione di olio da Grecia, Spagna e ora Tunisia, promuovere una riorganizzazione del sistema produttivo che permetta di produrre più olio e di venderlo a prezzi concorrenziali: la foto che apre questo articolo illustra le operazioni di raccolta meccanizzata in un oliveto intensivo, una tecnica di impianto molto poco diffusa in Italia anche a causa delle norme che impediscono la riconversione degli oliveti tradizionali, meno produttivi ed efficienti.
Non è sufficiente un generico nazionalismo per convincere decine di milioni di italiani a convertirsi all'olio nostrano (che – come detto – nemmeno basterebbe). Meglio sarebbe motivare l'assunto della miglior qualità con evidenze scientifiche. Per di più, non pochi potrebbero addirittura preferire l'acquisto di olio tunisino come scelta "politica", nell'ottica del sostegno dell'economia di un Paese in via di sviluppo che, ora più che mai, ha un forte bisogno di esportare i suoi prodotti.