Più dazi sull'olio tunisino? Il protezionismo è l'oppio della politica
Innovazione e mercato
Nel 2015, secondo le stime della Coldiretti, l’Italia ha prodotto poco più di 400mila tonnellate di olio d’oliva e ne ha consumate 580mila; in più ha esportato quasi 320mila tonnellate di olio d’oliva. Anche le importazioni sono state ingenti, poco meno di 500mila. Sono cifre ballerine, che cambiano di anno in anno, ma che dicono essenzialmente due cose.
Anzitutto, produciamo meno olio di quello che consumiamo in Italia, ragion per cui abbiamo bisogno di importarne (pagandolo); poi, esportiamo sia olio prodotto in Italia, che prodotto all'estero. Ci sono margini per aumentare la produzione nazionale? Certo, attraverso investimenti che migliorino efficienza e capacità produttiva delle tante aziende produttrici. Il mondo ha sicuramente “fame” di olio d’oliva italiano. Farebbe bene il ministro Maurizio Martina a concentrarsi su questo obiettivo. Invece la sua crociata contro qualche goccia di olio d’oliva tunisino in più - decisa oggi dal Parlamento europeo - non aiuta né l’Italia, né i produttori nazionali. Li illude, così come accade ai consumatori, ai quali viene offerta una stantìa e dannosa retorica autarchica e protezionista.
Non è un paradosso che l’Italia importi ed esporti olio d’oliva: ad esempio, tra le 100mila tonnellate di olio d’oliva esportato lo scorso anno dall’Italia negli Stati Uniti (poco meno di un terzo del totale dell’export, dunque), c’è sia una quota di produzione italiana che una quota di produzione estera. Si tratta di prodotti diversi, che servono segmenti di mercato diversi e che hanno prezzi variegati per consumatori con propensioni di spesa differenziate. Non è raro trovare bottiglie con marchi italiani poco noti nel Belpaese e che segnalano, sull’etichetta, che l’olio contenuto provenga da olive coltivate in Italia, Spagna, Grecia, Turchia, Tunisia, eccetera. Sono prodotti a più basso prezzo, accanto ai quali si incontrano prodotti di più alta gamma che riportano in modo inequivoco l’origine italiana dell’olio. Esportiamo di tutto e per tutti, che male c’è? Qualcuno pensa che così si danneggia il Made in Italy? Sono altri i sistemi di tutela, ad esempio tenendo sempre molto alti i controlli di qualità, contrastando le frodi e promuovendo la nostra “filosofia del cibo”.
L’Italia è una potenza globale in materia di cibo, negli ultimi decenni stiamo “alfabetizzando” come mai prima il mondo al nostro stile culinario, davvero dovremmo preoccuparci che nel mercato europeo entrino 35mila tonnellate di olio d’oliva tunisino in più senza dazi (oltre alle 57mila circa già esentate)? Entrerebbe comunque, perché ne abbiamo bisogno, solo che lo pagheremmo di più. È una goccia in un oceano, peraltro. Perché piuttosto non lavoriamo ad aumentare la quota nazionale di produzione?
La verità è che il protezionismo è un oppio che la politica – in questo caso tutta, da ampi settori del Pd alla Lega, passando per M5S e Forza Italia - spaccia all’opinione pubblica come difesa degli interessi dei cittadini. Nel caso dell’olio d’oliva, è in realtà una tangente ideologica pagata a pochi e ben identificabili portatori di interesse ed è l’elusione dei problemi concreti del settore. L’Italia avrebbe seriamente bisogno di modernizzare la sua olivicoltura: si fa poca sperimentazione, le aziende rinunciano agli agronomi, gli ulivi peggiorano in salute e produttività. Di questo però, tutti i novelli difensori del sacro olio patrio non parlano: non sono interessati alle cose serie.
Il tutto per tacere della ragione politica che ci dovrebbe spingere a privilegiare le partnership economico-commerciali con l'unico paese arabo confinante, che oggi è disponibile e concretamente in grado di collaborare con l'Italia sul governo dei flussi migratori e che è impegnato a resistere alle infiltrazioni islamiste. Non dovevamo aiutarli a casa loro, per impedire che i disperati si riversassero sui barconi o si vendessero alla jihad? Ma per gli autarchici e gli xenofobi, olio o uomini, non fa differenza. Niente "cose arabe" in Italia.