logo editorialeBisogna evitare di trarre la morale politica degli scandali Expo e Mose dalla mole di chiamate di correo, autoaccuse e autodiscolpe che affollano le cronache - la solita notte nera della corruzione italiana, in cui tutti i politici sono neri, al di là della diversa, o perfino inesistente, posizione giudiziaria.

La morale della favola non sta comunque lì e neppure nella cosiddetta "verità" che i giudici sono chiamati ad accertare, che è la più controversa, la meno anticipabile e la meno servibile - anche se in Italia si ritiene il contrario - per un giudizio di responsabilità politica. Lo scandalo, per quello che se ne sa e che è emerso anche dai provvedimenti giudiziari, oggi non fa ancora i nomi dei colpevoli, ma fa già abbastanza chiaramente il nome della colpa.

A sentire le soluzioni che vengono proposte e presentate come salvifiche all'opinione pubblica - detto in sintesi: più controlli e più poteri eccezionali ai controllori - sembra che si vogliano replicare e non prevenire le cause istituzionali dei problemi, di cui gli scandali Expo e Mose sono gli effetti. In Italia, la "grandezza" di un'opera pubblica - si parla infatti di "grandi opere" - ha autorizzato, anche culturalmente, l'idea della loro irrimediabile dismisura con le regole amministrative ordinarie e le comuni logiche di mercato, come se le grandi infrastrutture pretendessero, di per sé, una infrastruttura normativa ad hoc (e alla fine, inevitabilmente, ad personas).

Per le grandi opere o - che è lo stesso - per le grandi emergenze - si pensi ai fasti della Protezione civile made in Bertolaso - diventano così derogabili tutti i più comuni criteri di garanzia, giuridica ed economica: dalla valutazione corretta del rapporto costi-benefici nella scelta dell'opera da realizzare e nelle modalità di realizzazione, all'assegnazione delle procedure di affidamento dai lavori ad una "stazione" terza e non dipendente nè dal committente, nè dall'esecutore, fino alla costruzione di un sistema di controlli che non leghi, in una medesima rete di interessi politico-affaristici, i controllori e i controllati. Con il Mose, e non solo con il Mose, si è fatto l'esatto contrario.

Così i poteri e le procedure eccezionali e il moltiplicarsi di livelli di interposizione, e dunque di negoziazione, politico-economica tra i committenti, i concessionari e gli esecutori delle opere hanno portato per il Mose un preventivo di 800 milioni, probabilmente sottostimato, ad un semi-consuntivo di 7 miliardi, evidentemente sovrastimato, alimentando un mercato parallelo di interessi particolaristici. Cosa di tutto questo sia rimasto nel bianco delle transazioni legali e quanto sia finito nel nero delle tangenti, da un certo di vista, è quasi irrilevante.

Come ha spiegato benissimo Oscar Giannino "non sarà il fatidico avvento degli onesti a impedire appetiti e fondi neri", ma il recupero di efficienza nella normalità amministrativa, che in Italia sembra lontanissimo da venire, perché si continua, per lo più, a ritenere che il funzionamento naturale del mercato non favorisca, ma pregiudichi la trasparenza e l'efficienza dello Stato, per poi mettere un poliziotto "buono" alle calcagna di ogni imprenditore "cattivo".

@carmelopalma