Storia della colonna grillina
Editoriale
I processi di piazza che Grillo minaccia non sono solo la parodia democratica dei processi popolari, che le BR inscenavano contro gli agenti del SIM (Stato Imperialista delle Multinazionali) o di quelli che i tribunali speciali del regime fascista apparecchiavano contro i nemici della nazione.
Rischiano ancor di più di assomigliare, nelle loro forme e nella loro sostanza "interiore", al processo intentato a Milano nel 1630 contro i presunti untori Gian Giacomo Mora e Guglielmo Piazza e raccontato dal Manzoni nella Storia della colonna infame. Della colonna, cioè, eretta a monito e ricordo dell'infamia dei colpevoli sulle macerie dell'abitazione di chi, secondo l'accusa, aveva cosparso "diversi lochi di letali unguenti", e poi passata a documentare, a futura memoria, l'infamia di una giustizia all'ingrosso, che rende alla piazza i colpevoli che questa reclama e mette i giudici al servizio del tumulto e la legge a corredo della violenza.
Come nei processi agli untori, secondo uno schema che nella nostra storia nazionale ha una sua sinistra ricorrenza, anche nei processi in cui le piazze a Cinque Stelle dovrebbero giudicare e condannare i colpevoli, il male non è il dimostrabile effetto, ma in sè la prova provata del maleficio. Se non ci fossero gli untori, non ci sarebbe la peste. Se non ci fossero i ladri, l'Italia starebbe benone e quando sarà loro fatto risputare il bottino, torneremo tutti ricchi. Tranne, ovviamente, "loro".
Nell'Italia raccontata da Manzoni la piazza che processa gli autori del contagio si specchia e si riconosce in quella che assalta i forni, quella per cui l'esistenza della peste dimostra la malvagità degli untori in quella per cui il prezzo e la scarsità del pane dimostra l'avidità dei fornai. Nell'Italia, di cui Grillo allevia la cattiva coscienza e soddisfa i cattivi pensieri, untori e fornai hanno però una faccia politica e non si può quindi invocare contro di loro un potere costituito. Non si può chiamare la polizia, si può arruolarla, rubandola allo Stato ("la Digos e i Carabinieri sono già con noi").
Il leader del M5S così rimastica e risputa volgarizzato un po' di gramscismo - il sovversivismo delle classi dirigenti - e di berlinguerismo - la questione morale come surrogato della lotta di classe - e lo riadatta a un anti-partitismo di ispirazione sostanzialmente fascista, che giustifica e assolve gli eccessi di zelo e gli accessi d'odio di un Paese, in cui quelli che pensano che "gli altri fanno tutti schifo" rischiano di diventare la maggioranza e il "far pulizia" di rassomigliare a una sorta di guerra civile guerreggiata, al momento, a vaffanculo e pernacchie e domani chissà - a seconda di dove porta il cuore e il desiderio di forca e di pene esemplari.
Dicono: "vinciamo noi" e non sarebbe, purtroppo, nè una sorpresa, nè una novità.