All’Italia in crisi, come alle squadre che non riescono a vincere, servirebbe una coppia del gol in grado di risollevarla nella classifica e magari portarla di nuovo allo scudetto. Fuor di metafora calcistica, ciò di cui ha bisogno il nostro Paese per tornare a crescere sono liberalizzazioni e privatizzazioni in tutti i settori dell’economia.

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Pulici e Graziani, oppure Mancini e Vialli. Le coppie dei “gemelli del gol” sono rimaste impresse nella memoria degli italiani perché da sole caratterizzavano squadre altrimenti non da primato, ma che invece, grazie ad esse, riuscivano a vincere lo scudetto, come il Torino e la Sampdoria.

Ebbene, anche l’economia italiana, se solo la classe politica lo volesse, potrebbe puntare sui suoi gemelli del gol per uscire dalle secche di stagnazione, basso tasso di occupazione, emigrazione dei migliori, alto debito pubblico e carico fiscale. Stiamo parlando di liberalizzazioni e privatizzazioni, le grandi assenti dall’azione di governo di Renzi e, per la verità, anche degli altri governi del XXI secolo.

Per trovare una spinta decisa e coerente e non episodica nella direzione della concorrenza e dell’apertura al capitale privato, bisogna infatti risalire alla seconda metà degli anni ’90 - che, forse non a caso, sono gli ultimi in cui, nonostante le tasse per l’Europa, si sia verificata una crescita del Pil sì deboluccia, ma almeno degna di questo nome.

Consideriamo in primis perché è meglio avere dei gemelli invece che un solo grande centravanti alla Higuain. La ragione è semplice: la combinazione dei due è più fruttuosa. Le privatizzazioni servono a ridurre il debito pubblico, ma non solo. Infatti, quando le società pubbliche vengono quotate, si introduce la disciplina dei mercati finanziari, fatta sia di regole di governance che di requisiti di efficienza. Se arrivano investitori stranieri portano il loro bagaglio di know-how, rete commerciale o brevetti utilissimi a fini di sinergia e di redditività ma anche per la formazione del personale italiano.

L’assenza dello Stato nell’azionariato evita fenomeni di scelta di investimenti aziendali a fini elettorali e non economici, di selezione di manager per motivi di appartenenza politica, di commistione con i regolatori, nominati o influenzati dalla stessa classe politica. Senza mano pubblica si evita la concorrenza sleale con le società private, le quali, ad esempio, fanno più fatica a trovare finanziamenti bancari od obbligazionari in assenza della garanzia della proprietà statale.

Questi vantaggi, però, sarebbero sicuramente diminuiti se l’azienda privatizzata continuasse ad essere un monopolista, magari concessionario pubblico protetto dalla competizione. Oppure se i prezzi del mercato in cui opera fossero amministrati da un’autorità pubblica che avesse il potere di elevare barriere regolamentari all’entrata di nuovi concorrenti. E se questa società dovesse ricorrere a professionisti a loro volta privilegiati normativamente e poco efficienti, o si approvvigionasse da società oligopoliste o monopoliste, probabilmente si troverebbe a dover competere con gli stranieri con un handicap di partenza.

Ecco perché liberalizzazioni e privatizzazioni, se vanno di pari passo, sono più benefiche che da sole. E nel Belpaese è facile capire da dove un governo veramente riformatore dovrebbe cominciare. Innanzitutto dovrebbe sbarazzarsi - e fare in modo che gli enti locali si sbarazzino - di tutte le imprese pubbliche che già operano in regime di concorrenza attuale o potenziale. Non c'è una sola motivazione vagamente teorica (di quelle sul servizio di pubblico interesse che può essere reso solo da un monopolista) per mantenere di proprietà del Leviatano (o della CDP) aziende come ENEL, Eni, Saipem, Snam, Finmeccanica, Poste, Trenitalia, Poligrafico, Rai, gli aeroporti, le stazioni, i porti, le public utility locali e quant’altro.

A maggior ragione va sfoltito il patrimonio immobiliare pubblico, operazione in passato non riuscita per mancanza di volontà politica. Ad oggi si dice che il valore degli immobili statali immettibili sul mercato sarebbe di soli 2,7 miliardi perché per gli altri ci sarebbero vincoli demaniali di vario genere. Appunto, i vincoli non sono un noumeno kantiano dell’edificio, ma qualcosa che la legge ha stabilito, basta cambiarla.

Per i settori produttivi prima menzionati, alcune delle liberalizzazioni contenute nel ddl concorrenza che giace in Parlamento sono direttamente utili: i prezzi dell’energia, l’apertura di nuove stazioni di servizio, il recapito dei plichi giudiziari. Altre, quelle relative alle professioni, le farmacie, le assicurazioni, le telecomunicazioni e le banche creano il giusto contesto competitivo. Altre ancora, espunte dal ddl, sui porti, i trasporti pubblici, i fondi pensione, i farmaci di fascia C sono rilevanti nei due sensi.

Insomma, per riprendere la strada dello sviluppo l’economia italiana ha bisogno di molti gol. Una vita da mediano traccheggiando a centrocampo oggi non assicura più la salvezza, ma la retrocessione in serie B.