logo editorialeChiuso l'accordo per il controllo totale di Chrylser da parte del Lingotto, diventa più italiana Chrysler o più americana Fiat? Delle due, nessuna. Quella tra Fiat e Chrysler è infatti una storia di identità multiple e di conformismi "violati", e riflette lo stile del suo protagonista, Sergio Marchionne.

Uscita da Confindustria e allontanatasi dalle greppie avvelenate del capitalismo di provincia italiano, Fiat è riuscita a comprare Chrysler da socio di minoranza e con i soldi della stessa casa americana, evitando una quotazione in Borsa che rischiava di diluirne la presenza nel capitale della casa di Detroit. E' il risultato di anni di promesse mantenute e di fiducie ben riposte nella capacità di Sergio Marchionne di non sprecare la crisi. Quando Fiat sbarcò in America nel 2009, Chrysler era finita e coi libri in tribunale. Due anni dopo, la casa torinese restituiva al contribuente americano i 7,6 miliardi che aveva temporaneamente sborsato come contributo al salvataggio della controparte.

E oggi Chrysler salva Fiat dalle secche di un mercato europeo dell'auto che farebbe piangere perfino i meglio attrezzati tedeschi. Il gruppo italo-americano chiude il 2012 con un utile di 1,4 miliardi di euro solo grazie agli americani. Da sola, la Fiat avrebbe perso 1 miliardo, e certamente di più se fosse rimasta una mera creatura confindustriale, costretta a negoziare la distruzione del proprio valore con Landini e Bonanni, e a difendersi in tribunale dai tentativi di massima disoccupazione che i sindacati avrebbero sciaguratamente esperito sotto l'egida del nostro diritto del lavoro.

Quella Fiat non c'è più, e al suo posto oggi c'è un gruppo con ancora molti problemi – in primis l'enorme stock di debito accumulato e la sovracapacità produttiva degli stabilimenti europei – ma altrettante opportunità. Qualcuna perfino per l'Italia, e non era scontato che vi fosse. A settembre dell'anno appena terminato, l'azienda ha inaugurato un piano di investimenti per 1 miliardo sullo stabilimento torinese di Mirafiori, che dovrebbe produrre un suv della Maserati e un nuovo modello di Alfa, con i quali Marchionne punta a inserirsi nel mercato dell'alta gamma, oggi dominato da Bmw e Audi.

E' un investimento diretto estero in un Paese che continua ad essere repulsivo per i capitali del mondo, nonostante in molti, Marchionne in testa, farebbero più che volentieri degli ottimi affari con il suo marchio naturale, il made in Italy. Nel 2012 eravamo 62esimi su 132 paesi per apertura a capitali stranieri, e il nostro assetto regolamentare valutato tra i peggiori al mondo rispetto agli investimenti: 109esimi su 132.

Il tema, al netto delle lacrime di maniera sulla perdità di italianità di Fiat e di altri pezzi di industria nazionale, resta tragicamente quello di un ventennio fa, e cioè come determinare l'apparizione del Paese nelle strategie di investimento dei gruppi industriali esteri. Le risposte, al netto delle barricate d'ufficio allestite dai campioni della rendita di posizione tricolore, restano pure tragicamente quelle di un ventennio fa: riforma e semplificazione del mercato del lavoro, della burocrazia e alleggerimento fiscale.

Adesso la Fiat ha davanti a sè la sfida di recuperare posizioni nel mercato globale dell'auto, vincendo la competizione sui modelli e penetrando nell'immenso mercato cinese, coperto soltanto per il 25% da costruttori locali. Non è semplice vi riesca, ma oggi è certamente meglio attrezzata di ieri. Perchè può usare gli Stati Uniti come piattaforma di lancio, anche del made in Italy. Il potenziale dell' Italia continua a tirare molto di più della sua attualità. E a questo punto dovremmo aver imparato che è solo colmando il divario tra i due estremi di questa dialettica che il Paese potrà recuperare centralità nel mondo. Diventare per gli investitori stranieri ciò che l'America è stata per Fiat, una opportunità di globalizzazione, sarebbe l'unica possibilità di rilancio per l'Italia.