Quel che Angelino non può non sapere
Editoriale
Autunno 2012: il Partito democratico si prepara a celebrare le primarie e Angelino Alfano chiede che anche nel campo del centrodestra, che resta nonostante tutto e tutti dominato da Silvio Berlusconi, siano gli elettori a scegliere il candidato premier.
Se è vero che la storia ama ripetersi, si direbbe che in Italia lo faccia più spesso, facilitata forse da un sistema politico il cui avvitarsi su se stesso pare destinato a procedere all'infinito e i cui protagonisti appaiono incapaci di disfarsi del proprio karma.
Da una parte un partito che è fin troppo "vero", diviso in correnti, feudi e fazioni, impegnato pressoché costantemente in estenuanti celebrazioni "democratiche" (i congressi, le assemblee, le segreterie, le primarie) che finiscono col fungere, anziché da momento di partecipazione come avviene nelle altre grandi forze politiche occidentali - da sfogatoio per un coacervo di forze centrifughe altrimenti incontrollabile.
Dall'altra la forza centripeta di Silvio Berlusconi, del suo carisma, dei suoi soldi, dei suoi interessi. E un partito che può permettersi di cambiare linea politica, parole d'ordine, vertici, e persino nome dalla sera alla mattina, a seconda dell'umore che si respira a Palazzo Grazioli.
Angelino Alfano, che in quella casa politica ha vissuto per anni fino ad assurgere al ruolo di delfino, non può fingere non saperlo. Non può non sapere che, poiché si è ciò che si vuol essere, il Pdl (o Forza Italia) ha scelto di essere fin dai suoi primi giorni di vita non il partito dei moderati, né il "centrodestra italiano", ma molto semplicemente il partito di Silvio Berlusconi. È stata anche la sua forza, il motore che ha permesso di vincere nei momenti migliori e di sopravvivere in quelli peggiori, quando tutto sembrava perduto. Angelino Alfano non può fingere di credere che sia possibile piegare il partito di Berlusconi a logiche di "normalità" che con un dna del genere non hanno nulla a che spartire. Chi ha tentato di cambiare "da dentro" prima Forza Italia e poi il Popolo della libertà, nell'illusione che fosse possibile costruire un nuovo centrodestra restando nell'alveo di quello vecchio, ha fallito.
"Farai la fine di Fini", dicono i falchi berlusconiani ad Alfano, agitando l'immagine dell'ex presidente della Camera quasi fosse un memento mori. Ma Gianfranco Fini non ha fallito per essere fuggito da Arcore, quanto, anzi, per non aver portato fino in fondo la rottura, oltre che per non aver saputo concretizzare il "rinnovamento" promesso a gran voce in termini di uomini, di regole e di contenuti. Le misere percentuali raggranellate da Futuro e libertà nel febbraio scorso sono ben lontane dai consensi a due cifre che i sondaggi - per quel che valgono - assegnavano ai "traditori" mentre a Mirabello e a Bastia Umbra si festeggiava il divorzio dal Cavaliere.
C'è ancora chi crede nello scatto in avanti del ministro dell'Interno, nella sua felpata democristianeria che - dicono - sarà capace di scalfire irrimediabilmente il berlusconismo. Sarà. Per ora l'ex delfino si è rimangiato la (seconda) richiesta di primarie, che aveva acceso un vivace scontro con l'altro delfino, Raffaele Fitto, derubricandola a falso scoop di Bruno Vespa. Un altro passo indietro, un altro segnale che, con buona pace di chi pensa che sia tutta una strategia di lungo periodo per ingabbiare il Caimano, la rottura non è nelle corde di Angelino. Non è il miglior viatico per fare la rivoluzione, liberale o democristiana che sia. E la storia dirà se un domani sarà peggio fare la fine di Fini o la fine di Alfano.