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La legge di revisione costituzionale sulla separazione delle carriere dei magistrati, appprovata ieri in prima lettura dalla Camera, ha alcuni limiti. A differenza di quella proposta pochi anni fa dall’Unione delle Camere Penali non prevede né i concorsi separati per l’accesso alle distinte funzioni requirente e giudicante, né un riequilibrio tra la componente laica e togata (i rapporti rimangono 1/3 e 2/3, non 50% ciascuna) nei due nuovi organi di autogoverno. Rimane ambigua - perché rimandata alla legge ordinaria - anche la regola dell’estrazione dei togati nei due Csm, oltre che nella Corte disciplinare di nuova istituzione.

Quanto alla scelta dell’estrazione come taumaturgica misura spacca-correnti, si può concedere che ad un certo punto si sia resa necessaria per assenza di alternative, vista anche l’indisponibilità della magistratura associata a discuterle, ma non si può sostenere che, in quanto obbligata, la “soluzione lotteria” sia di per sé ottimale per la composizione di un organo costituzionale.

Nel complesso è una riforma che lascia anche un angusto, ma pericoloso spazio a spericolate marce indietro: visto che il nuovo articolo 102 della Costituzione dice che le “norme sull'ordinamento giudiziario… disciplinano le distinte carriere dei magistrati giudicanti e requirenti” e negli altri articoli della Carta modificati da questa legge non si fa riferimento né ai concorsi separati, né all’impossibilità del passaggio da una funzione all’altra, nulla vieta a una diversa maggioranza parlamentare di adottare una disciplina che consenta ai magistrati passerelle tra l’una e l’altra funzione, pur in presenza di due CSM separati. Il che aprirebbe forse una questione di costituzionalità, legata però proprio all’ambiguità del testo della legge oggi approvata.

Il fatto che questa legge abbia trovato un'opposizione pregiudiziale, paranoica e imbrogliona – a partire dall’accusa di aprire la strada a una legge ordinaria di subordinazione dei pm all’esecutivo, che rimarrebbe invece manifestamente incostituzionale – ha reso anche più difficile discutere nel merito delle norme e della loro malagevole e successiva implementazione e ha dato sponda alla maggioranza di governo che, caso unico nella storia della Repubblica sulle modifiche della Costituzione, ha preteso che della riforma presentata dall'esecutivo non si toccasse neppure una virgola.

L’ostilità ideologico-corporativa alla separazione delle carriere dei magistrati, in qualunque concetto e forma, ha anche consentito al centro-destra di presentare questa come la madre di tutte le riforme e come il punto di svolta verso una giustizia giusta.

Se in termini storico-istituzionali questa legge è un complemento, imperfetto ma coerente, della riforma dell’articolo 111 della Costituzione (giusto processo) del 1999 e del codice di procedura penale accusatorio approvato nel 1988, di sicuro non si può pensare che preluda a una bonifica dell’ipertrofia della legislazione penale che è il vero segno – rigorosamente bipartisan – dell’Italia bipopulista.

I delitti istituiti e le pene comminate, sovrabbondanti in qualità e quantità, sono da decenni, per entrambi gli schieramenti politici, il biglietto da visita della propria moralità politica. Se destra e sinistra hanno nemici contrari, hanno un'uguale inclinazione a usare la legislazione penale per perseguirli e accreditare nei rispettivi schieramenti la virtù della propria fermezza. Le leggi penali sono diventate un ricettacolo di narcisismi virtuistici e di propagande oscene di variegata ispirazione classista e razzista, moralista e discriminatoria per cui la separazione delle carriere non rappresenta né un argine, né un rimedio, proprio perché si tratta di fenomeni e patologie che non hanno a che fare con la perversione della cultura giurisdizionale, ma con la sostanza antiliberale della prassi politica e legislativa.

Oltre a separare le carriere dei magistrati – così, o se fosse possibile meglio di così – bisognerebbe separare la propaganda politica dalla giustizia penale. Ma su questo la destra di governo è pure peggio dell’opposizione demo-populista.