(Rileggendo Charles Louis de Secondant barone de la Brède e di Montesquieu, Pensieri, riflessioni e massime, a cura di D. Felice, Milano, 2021) (1).

Pensieri, riflessioni e massime è uno zibaldone di Montesquieu che, per mutuare il il giudizio che ne diede Albert Sorel, era un osservatore tra i più intelligenti delle società umane, il più saggio consigliere nei grandi affari pubblici, uomo che aveva coniugato un senso così delicato delle passioni individuali ad una penetrazione così perspicace delle istituzioni statali.

La raccolta si presta alle letture più varie: vi si trovano le trame e gli orditi della produzione del Barone di La Brède, che vennero intessuti nelle opere che lo hanno reso famoso, tra tutte: Le lettere persiane e Lo spirito delle leggi.
Ma in questa bella raccolta vi si possono individuare e seguire plurimi fili di lettura.

§ 1.- Montesquieu cosmopolita e comparatista

Sarà forse anche vero che Montesquieu potesse apparire contraddittorio o incoerente (2) o peccasse di profondità di intuizioni, profondità che lo storico pugliese attribuiva, a confronto, a Giovanbattista Vico, ma di certo – e sono sempre parole di Salvemini - Montesquieu supera Vico per la “straordinaria ricchezza delle notizie, per la varietà delle osservazioni, per la finezza delle analisi, per la perspicuità della forma” (3).

Ma al pensatore francese, all’alba dell’ultima grande rivoluzione del XVIII secolo, si deve senz’altro la piena comprensione della “relatività delle forme politiche e giuridiche era in pieno contrasto con quel razionalismo che era una delle costanti del secolo XVIII” (4).

Così, infatti, nella massima (854, pag. 424), il Barone de la Brède appunta, con riflessione che verrà ripresa ne Lo Spirito delle Leggi,

“gli uomini sono governati da cinque cose differenti: il clima, le maniere, i costumi, la religione e le leggi. A seconda che, in ogni nazione, una di queste cause agisce con maggiore forza, le altre cedono in proporzione. Il clima domina, quasi da solo, sui selvaggi; le usanze governano i cinesi; le leggi tiranneggiano il Giappone; i costumi davano, nei tempi andati, il tono a Roma e Sparta; e, infine, oggigiorno, la religione fa tutto nel Mezzogiorno d’Europa”.

La consapevolezza di questa profonda relatività delle istituzioni e delle loro leggi nasceva in Montesquieu dall’aver molto viaggiato e, così, conosciuto da vicino le realtà sociali e storiche che lo avevano incuriosito.

In un certo senso, poi, questo sforzo di conoscere le realtà aliene farà di lui uno dei grandi comparatisti ante litteram, ovvero quelli studiosi capaci di individuare i tratti profondi che caratterizzano questo o quel sistema non solo giuridico andando oltre la semplice forma delle leggi o delle regole sociali, morali o religiose che siano.

Ad una tale apertura nei confronti del diverso e della relatività dei valori e dei costumi e, quindi, degli ordinamenti, lo aveva condotto senz’altro il suo atteggiamento che era opposto a quello del montante razionalismo, che andava caratterizzando il mondo contemporaneo di Montesquieu.

Su questo campo è chiara l’opposizione del Barone rispetto al pensiero di Hobbes, che non fu solo l’alfiere filosofico dell’assolutismo, ma anche uno dei principali esponenti della corrente razionalista.

Ma su questo si tornerà tra poco, analizzando il se ed il come Montesquieu sia stato, ed abbia, influenzato le tre grandi rivoluzioni dei secoli XVII e XVIII: la Gloriosa Rivoluzione Inglese (1688-1689), la Rivoluzione Americana (1776) ed infine la Rivoluzione Francese (1789).

§ 2.- Montesquieu e le tre rivoluzioni moderne: la Gloriosa Rivoluzione inglese

Per puro caso, infatti, Montesquieu nasce nel 1689. Morirà poco dopo la metà del 1700, nel 1755, ma le sue idee ovviamente, e per fortuna, gli sopravvissero.

Se è vero, infatti, che ne Lo Spirito delle Leggi vengono descritte le tre forme di governo che gli uomini si possono dare - quella monarchica, quella repubblicana e quella dispotica - ciascuna di esse contribuisce ad identificare non solo i sentimenti che rispettivamente le caratterizzano, ma anche l’idea stessa di libertà che, con evidenti gradi differenti, le venivano ad innervare.

La forma monarchica - il cui sentimento fondante era, per Montesquieu, l’onore – costituiva nella sua essenza il modello paradigmatico della monarchia inglese, così come si era stabilizzata a seguito della Gloriosa Rivoluzione.

Per dirla con il grande storico liberale G. M. Trevelyan (5), la principale questione in gioco all’inizio di quella rivoluzione era questa: deve il Re sottostare alla legge oppure la legge al Re?

Giacomo e Carlo Stuart erano convinti che fonte della legge dovesse essere la volontà del principe e che i Giudici fossero solo “i leoni ai piedi del trono”.

Al tentativo delle corone Stuart di rendere alterabile la legge per volontà del monarca, rendendo così il Re padrone del Parlamento, si era opposto fieramente, tra i tanti ma con più autorevolezza di tutti, il grande giurista Edward Coke.

Sir Coke sarà pure stato un arrivista, prepotente ed ambizioso (6), ma al potere e relativa agiata carriera personale antepose il suo amore per “Our Lady the Common Law”: il diritto tipicamente inglese.

Così Coke lottò per non far inginocchiare il diritto inglese innanzi alle teste incoronate dei monarchi: prima con il celeberrimo Dr. Bonham’s Case del 1610 (7), fino alla approvazione della Petition of Rights del 1628. Ne emerse, a livello planetario il principio della Rule of law: il dominio della legge rispetto al volere della Corona. La legge, secondo Coke, esisteva in sé, in forma indipendente e superiore al principe come ai sudditi e tenuta ad offrire uno strumento di giudizio imparziale.

Con la Gloriosa Rivoluzione Inglese la vittoria delle idee di Coke fu definitiva e ad essa si aggiunse, per volontà del nuovo Re Guglielmo d’Orange, l’istituzione della inamovibilità dei giudici, non più nominati durante beneplacito bensì quam diu se bene gesserint.

La predilezione di Montesquieu per quel modello di monarchia affermatosi in Inghilterra a fine Seicento contro il concorrente modello assolutista afferma la distanza tra il pensatore francese e Thomas Hobbes

“E’ un principio completamente falso quello di Hobbes secondo cui avendo il popolo conferito autorità al sovrano, le azioni di quest’ultimo sono le azioni del popolo, e di conseguenza il popolo non può lagnarsi del sovrano, né chiedergli conto in alcun modo delle sue azioni (…) Il popolo ha autorizzato il sovrano sotto condizione, l’ha nominato sulla base di una convenzione. Il sovrano deve tenervi fede, e rappresenta il popolo solo come il popolo ha voluto (o si presume avere voluto) che lo rappresentasse (…)” [224, pag. 239]

Il giusnaturalismo del Barone de la Brède, si oppone al razionalismo assolutista di Hobbes opponendo a questo il modello del diritto inglese, con la sua fortissima storicità, con il fascino esercitato dal suo essere una rete continua, priva di cesure, tanto adatto a tutelare le libertà individuali perché emergente da un sistema diffuso e non accentrato.

Questo, quindi, l’idealtipo monarchico favorito da Montesquieu, dunque: il potere sovrano limitato dalla legge. Il potere diventa moderato per evitare di esser dispotico e capriccioso e di doversi legittimare solo tramite la paura, il sentimento tipico e prevalente nella forma di governo dispotico.

§ 3.- La Rivoluzione americana

Quella stessa idea di Rule of Law viaggerà nei bagagli di chi attraverserà l’Oceano atlantico per dar vita al Nuovo Mondo. Il veicolo di tale impianto furono i Commentaries on the Laws of England di W. Blackstone (1765-1769), opera, tra le altre cose, dalla quale Thomas Jefferson trarrà ispirazione per la redazione della Dichiarazione di Indipendenza scrivendo la celeberrima formula del pursuit of happiness.

Ma la forza della Rule of Law, ovvero l’architrave del governo moderato, anche in terra americana si affermerà persino contro il potere del Parlamento, stabilendo l’intangibilità di quelle sfere di diritti individuali che nessuna maggioranza parlamentare poteva pensare di scalfire o minacciare: ne farà piena prova l’insieme degli emendamenti alla Costituzione americana: il Bill of Rights.

Ma oltre all’impianto del diritto inglese sul suolo americano le idee di Montesquieu non furono meno influenti tra i padri fondatori degli Stati Uniti d’America.

L’eredità della Common Law inglese, della Rule of Law appresa dall’opera di Blackstone e quindi suo tramite da Coke, e l’ideale di un potere limitato dalla legge così come descritto ne Lo Spirito delle Leggi costituirono, infatti, le vere e prime armi abbracciate dai rivoluzionari.

Già nella rivolta contro il famigerato Stamp Act del 1765 venne brandito il principio secondo il quale non vi poteva esser potere di tassazione senza una adeguata rappresentanza del popolo sottoposto a quell’odioso potere. Da qui il motto “taxation without representation is tyranny” poi reso globalmente famoso dall’avvocato James Otis come “no taxation without representation”.

Quell’abuso da parte della Corona inglese verso le Colonie dimostrò agli americani, in tutta la sua nociva portata, come persino il potere della più moderna delle monarchie ben potesse farsi corrompere dalla tirannia, dal capriccio dispotico che non erano elementi proprio del giusto governo monarchico ritratto da Montesquieu ma facevano scivolare quel potere verso quell’altro modello – insopportabile – appellato dal Barone come dispotico.

Ed ancora, tanto era forte l’autorità di Montesquieu che se ne trovano plurime referenze pochi anni dopo l’indipendenza, quando gli americani si resero – buon per loro: subito – conto che il modello confederale iniziale non era in grado di funzionare ed elaborarono il modello federale (la Costituzione del 1787) che conosciamo oggi.

E così, a scorrere tanto i Federalist Papers scritti da Hamilton, Jay e Madison, quanto gli Anti-Federalist Papers di Clinton, Yates, Williams ed altri, i riferimenti all’opera ed al pensiero di Montesquieu si sprecano.

Basti qui pensare non solo alla tripartizione del potere, secondo il principio della divisione e separazione dei poteri, che si legge scorrendo i primi tre articoli di quella costituzione, dedicati nitidamente al potere legislativo, al potere esecutivo ed a quello giudiziario, secondo le linee direttrici esposte ne Paper n. 51 dei Federalist Papers scritto da Madison ma anche il fondamento di quello che, dopo il famoso caso Marbury v Madison (1803) sarebbe diventato l’istituto del giudizio di costituzionalità delle leggi.

Quella stessa esigenza di moderazione del potere, tipica della riflessione di Montesquieu, capace di esser l’esatta rappresentazione del concetto di libertà proprio del francese: così si legge, nei Pensieri [935, pag. 277]

la ragione per cui la maggior parte dei governi della Terra sono dispotici è che un simile governo salta agli occhi ed è dappertutto uniforme. Dal momento che, per instaurarlo, bastano delle passioni violente, tutti ne sono capaci. Per istituire un governo moderato, invece, occorre combinare i poteri, temperarli, farli agire e regolarli; rafforzarne uno, per consentirgli di resistere a un altro (…)”

Si badi: nulla di anarchico e, nemmeno, di ribellista come malamente oggi vien spesso volgarizzato il principio di libertà, tanto da affermare [1269, pag. 120] che

“lo spirito proprio del cittadino è il desiderio di vedere l’ordine nello Stato, di provare gioia per la tranquillità pubblica, per la corretta amministrazione della giustizia, per la sicurezza dei funzionari civili, per la prosperità di coloro che governano, per il rispetto tributato alle leggi, per la stabilità della monarchia o della repubblica. Lo spirito proprio del cittadino deve essere quello di amare le leggi anche nei casi in cui ci nuocciano, e di anteporre, al male particolare che ci fanno qualche volta, il bene generale che esse ci fanno sempre”.

Dopotutto, anche nel pensatore francese è presente un tratto che lo accomuna ad una aliquota significativa di pensatori illuministi, in specie quelli scozzesi, ovvero una certa concezione scettica dell’uomo e della sua intima natura.

L’uomo in Montesquieu non è l’homo novus di un Rousseau mondato dagli umani difetti. E’ molto più simile all’uomo vizioso descritto da Bernard de Mandeville nella sua allegoria La favola delle api, autore che il Barone dimostra di aver letto ed apprezzato, tanto da citarlo sia nei Pensieri [1553, pag. 122] sia poi direttamente ne Lo Spirito delle Leggi.

Dopotutto, per riprendere la famosa frase di Madison nel Federalist Paper 51, se gli uomini fossero angeli i governi non servirebbero: massima, anche questa, che avrebbe trovato consenziente il filosofo francese.

È pur vero che per Montesquieu il fondamento della repubblica è il sentimento della virtù, ma non si tratta di virtù paternalisticamente imposta o pedagogicamente instillata, ma di moderazione nelle condotte e di ossequio alla legge. Non a caso, per Montesquieu, la repubblica era forma di governo adatta per i piccoli stati, motivo per il quale lo stesso Jefferson al fine divergerà da Montesquieu dopo averne messo a frutto i principi ispiratori, calando in forma repubblicana il modello di governo monarchico inglese, sostituendo al Re un Presidente della repubblica come capo dell’esecutivo.

Quando la Rivoluzione americana rese indipendenti le ex-Colonie Montesquieu era morto da qualche tempo, ma la sua influenza è chiaramente rinvenibile.

§ 4.- La Rivoluzione francese

Dopo la Rivoluzione americana l’Europa conoscerà l’ultima grande rivoluzione del XVIII secolo, quella francese.

E anche questa fu debitrice, quantomeno al suo principio, del legato del Barone de la Brète.

Salvemini, nella sua opera sulla Rivoluzione francese, giustamente e con prosa corrosiva, ricorda come Montesquieu oltre ad aver indagati i principi della monarchia avesse analizzato anche il fondamento, lo spirito della democrazia repubblicana. La repubblica aveva per base l’eguaglianza dei diritti civili e politici – e qui siamo alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789 – e la libertà, in un governo repubblicano è meno importante di quanto non sia l’eguaglianza, con annessi i poteri supremi ed illimitati.

Per Salvemini pare quasi che Montesquieu avesse apparecchiato il tavolo per quello che sarà poi il governo giacobino, il quale poi si prese la briga, in poco tempo, di passare dall’incipiente principio democratico, dove le teste sarebbero state contate, alla più atroce tirannia in cui le teste venivano, più semplicemente, fatte rotolare dentro i canestri, per sbarazzarsi dell’uomo dell’ancient regime. Ma di mezzo vi era stata la seconda Dichiarazione dei diritti dell’uomo, quella del 1793, dove gli uomini più che uguali davanti alla legge, come voleva l’antica tradizione del diritto inglese, erano invece ritenuti uguali per natura.

In questo passaggio il legato di Montesquieu in realtà scompare del tutto, perché scompare quella stessa idea di virtù repubblicana, di moderazione del potere (8), di sua divisione, frazionamento e bilanciamento, che tanto ruolo avevano avuto e nella riflessione del nostro e nella ispirazione che ne trassero coloro che lo lessero e lo studiarono.

Non è affatto un caso, infatti, che la posizione di Montesquieu venne giudicata all’alba del 1789 dal capo della rivoluzione dei notabili, il Mounier: nelle sue Nuove osservazioni sugli Stati generali di Francia (1789) Mounier condannerà la monarchia di Montesquieu (9) perché troppo legata al ruolo della nobiltà come corpo intermedio – ed in effetti il Barone aveva così interpretato il ruolo che la nobiltà, rappresentata dalla Camera dei Lord, svolgeva nel sistema inglese. Ma pure nei confronti di Mounier, che tanto fece per la convocazione della Assemblea Nazionale e che la presiedette, la Rivoluzione francese non fu affatto generosa: per evitare che la sua testa venisse usata come tetro trofeo dovette riparare in Svizzera e vivere i suoi ultimi anni in esilio (10).

§ 5.- L’attualità di Montesquieu

Se si volessero trarre delle conclusioni da questo suggerimento di lettura, utile sarebbe ricordare come per Montesquieu il problema del miglior governo in assoluto non ha senso, mentre ha senso porsi quello del governo più adatto ad una particolare nazione.

La saggezza politica di Montesquieu, che poi è la chiave sia della sua passata influenza che della sua attualità, fa tutt’uno con il suo profondo realismo sociologico e con la sua profonda sensibilità storica.

Il governo moderato – che, sia detto di passata, non ha nulla a che vedere col moderatismo politico – è il vero modello di governo che più sta a cuore al francese, in quanto è il solo capace di garantire il libero ed armonioso sviluppo dei singoli, dei gruppi o corpi intermedi, i singoli ceti. Il solo modello capace di garantire e proteggere la dignità dell’uomo contro i soprusi e gli arbitri del potere.

La distinzione tra governi moderati e governi dispotici e la necessità della separazione dei poteri sono e restano i due fondamenti del pensiero di Montesquieu, e ne rappresentano ancor oggi la sua attualità.

Note

(1) Nel testo, i riferimenti alle massime e pensieri raccolti nel volume avviene mediante indicazione numerica e riferimento alla pagina in cui sono riportati.
(2) G. Bedeschi, Storia del pensiero liberale, Bari, 1990, 73.
(3) G. Salvemini, La Rivoluzione francese 1788-1792, a cura di F. Venturi, Milano, ed. 1954, 1962, 40.
(4) G. Salvemini, op. loc. cit.
(5) G.M. Trevelyan, La rivoluzione inglese del 1688-89, trad. di C. Pavese, Torino, 1941, 113 e passim.
(6) G.M. Trevelyan, Storia d’Inghilterra, Milano, 1961, 450.
(7) In cui Coke, dallo scranno della Court of Common Pleas, affermò come I principi della common law fossero superiori agli atti del Parlamento.
(8) Sull’abbandono di quel sentimento di moderazione che è essenziale affinchè si eviti il dispostismo, si vedano le riflessioni di E. Burke, Storia e tradizione, Milano, 2022, in particolare A Letter to a Member of the National Assembly, 19 gennaio 1791, 55 ss.,128.
(9) F. Chabod, Alle origini della Rivoluzione francese, Firenze, 1998, 123.
(10) E. Burke, Reflections on the Revolution in France, 1790, London, 2004, 167.