Pannella Dupuis grande

In questa foto, si vedono Marco Pannella e Olivier Dupuis, vestiti con la divisa militare croata, ma senz’armi. È il 31 dicembre del 1991 e insieme a altri dirigenti radicali - Roberto Cicciomessere, Lorenzo Strik Lievers, Lucio Bertè, Renato Fiorelli e Alessandro Tessari – si accingono a trascorrere la notte di Capodanno nelle trincee di Osijek, accanto alle forze di difesa croate, sotto il fuoco dell'artiglieria delle truppe di Milosevic.

Da Osijek Pannella lancia un appello rivolto ai cittadini serbi: “Cari amici serbi…oggi - secondo gli insegnamenti di Gandhi - il Partito Radicale sceglie di essere accanto ai popoli aggrediti con la guerra, a fianco della violenza delle vittime contro la violenza degli aggressori. Alcuni di noi, per questo, saranno in servizio di prima linea non armato fra i difensori delle città e delle popolazioni croate, animati da solidarietà e da amore per la vita, per i diritti anche di coloro che sono costretti ad ammazzare, a usare violenza, abusivamente in vostro nome e per vostro conto. Come voi, noi speriamo (e lottiamo) per una Serbia, grande per civiltà, per democrazia, per tolleranza, per cultura, per giustizia, per rispetto degli altri, europea, confederata con gli altri liberi popoli dell'ex Jugoslavia, associata all'Unione Europea”.

Successivamente il Partito Radicale denuncerà la complicità omissiva e “pacifista” delle principali cancellerie europee con i disegni di Milosevic, perfettamente rappresentata dalla risposta che il presidente francese Chirac diede nel giugno del 1995 a una delegazione di deputati europei, guidati da Alex Langer, che protestavano contro i massacri della popolazione bosniaco-musulmana, auspicando un intervento armato in loro difesa: “Non ci sono buoni e cattivi e non bisogna fare la guerra”.

Pochi giorni dopo sarebbe iniziata l’operazione che portò al massacro di 8000 musulmani bosniaci a Srebrenica e sarebbero ancora passati quasi due mesi prima che l’Occidente decidesse di intervenire contro i “cattivi” in difesa dei “buoni”, non per “fare”, ma al contrario per "fermare" la guerra.

Per chi ha memoria e coscienza di quella vicenda, è naturale e doloroso confrontare la pagina di storia della nonviolenza, che la foto di Pannella e Dupuis in divisa ricorda e che l’impegno radicale sul fronte ex jugoslavo ha testimoniato, con la pagina di cronaca del pacifismo da parata, che l’immagine di Conte con il dolcevita strehleriano e il suo populismo della buona coscienza rappresenta perfettamente, mentre lancia un alto monito contro l’invio di armi agli aggrediti ucraini, acclamato da una piazza uguale a quella che, trent’anni prima, manifestava contro la difesa degli aggrediti croati, bosniaci e infine kosovari.

Ma a testimoniare la differenza tra la nonviolenza e il pacifismo, più che ogni immagine e parola, è la scelta delle forme e dei luoghi di manifestazione e di lotta.

Il nonviolento manifesta e lotta dove la violenza miete le sue vittime, di modo da intralciarne la marcia o almeno illuminarne lo scandalo. Il nonviolento fa della propria stessa vita pegno della vita e della libertà altrui e non si pone il problema morale di non essere personalmente sporcato dalla violenza e di non diventarne partecipe, bensì l’obiettivo politico, se possibile, di disarmarla dei mezzi e in ogni caso di contrastarne il dominio e la pretesa legittimità. Per questo il nonviolento non vuole la pace, ma la fine della violenza, cioè della violazione dei diritti fondamentali, che la pace – intesa nel senso puramente negativo dell’assenza di un conflitto militare formalizzato tra stati sovrani – di per sé non garantisce e neppure promette.

Le manifestazioni per la pace sono l’esatto contrario di tutto questo: sono forme di posizionamento politico e di autorappresentazione ideologica. Sono contro la guerra come manifestazione dell'imperialismo occidentale e americano. Il pacifismo infatti non è mai stato assoluto e categorico nell’indisponibilità all’uso politico delle armi – non si ricordano manifestazioni pacifiste per disarmare Ho Chi Minh – come ad esempio la nonviolenza gandhiana, che impone di parteggiare per chi difende i diritti alla vita e alla libertà con le armi, ma non accetta (per ragioni teoriche molto complesse, ma non moralistiche) di sostenerne la causa con gli stessi mezzi.

La differenza tra pacifismo e nonviolenza è sostanziale e originaria. La teoria e la pratica della nonviolenza nasce in Italia all’interno del pensiero liberale laico e religioso, il pacifismo è il prodotto ideologico della propaganda stalinista, con i Partigiani della Pace organizzati dal PCI e mobilitati per impedire l’istituzione della Nato e l’adesione dell’Italia.