Ddl Zan, una cosa nata male è finita pure peggio
Diritto e libertà
Il ddl Zan è stato il tentativo meritevole nelle intenzioni, ma assai discutibile nelle conseguenze, di estendere la tutela giuridicamente riconosciuta contro l’hate speech a una comunità per definizione tanto “diversa” quanto minoritaria, quella LGBT, nel mirino di aggressioni odiose e diffuse, malgrado il mutamento spontaneo del costume sociale e l’adeguamento politico delle normative anti-discriminatorie.
Sulla scia di questa esigenza, come spesso succede su tematiche sessualmente sensibili, il ddl Zan è stato caricato di un compito improprio, in particolare in una legge che traffica pericolosamente con la materia penale: quello di istituire una sorta di minimo comune denominatore civile, sotto il quale parole, pensieri, espressioni e giudizi dovessero considerarsi giuridicamente “in fuori gioco” e, di per sè, incubatori o prodromici di aggressioni e violenze.
Questo ha portato alla formulazione delle parti più controverse del ddl Zan, in particolare l’articolo 4, dove si stabilisce una sorta di para-esimente religiosa per i giudizi "sessualmente scorretti" (il Papa, un prete o Silvana De Mari possono cioè continuare a dire che le unioni gay sono contro natura, sulla base delle Scritture), purché non si ravvisi che queste espressioni, ancorché legittime, siano “idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”.
In questo para-reato di “idoneità indiretta” alla violenza manca qualunque determinazione oggettiva. Non è una istigazione a commettere reato, che dovrebbe radicarsi in incitamenti direttamente volti a una specifica azione delittuosa. Non è un'apologia di reato, che implica un giudizio esplicitamente positivo su un crimine commesso. È (o meglio può essere) una sorta di concorso ideologico addebitabile a qualunque espressione che, per quanto legittima, sia interpretabile come causa o giustificazione di una condotta violenta e discriminatoria.
Peraltro, a precipitare la materia penale nella palude del “percepito” concorre anche la discussione ormai allucinata sulla identità di genere non come possibile difformità dell’identità sessuale dal sesso biologico, ma come condizione indeterminabile in modo oggettivo e dunque suscettibile, per chi lo desideri, di una tutela speciale, che passi dalla neutralizzazione, anche linguistica, di classificazioni “binarie” (maschile, femminile). Si tratta di un dibattito che già di per sé, in termini sociali, conduce a paradossi grotteschi, ma che portato dentro il codice penale è destinato a far esplodere una santabarbara di contraddizioni, autorizzando a considerare “aggressiva” e “violenta” la mera pretesa di determinazione anagrafica dell’identità sessuale.
Il modo in cui la querelle sul ddl Zan è finita – su un binario morto – alla fine è stata una conseguenza abbastanza prevedibile e forse anche voluta dal fronte più oltranzista dei partiti pro LGBT, che in questi mesi hanno fatto letteralmente di tutto per regalare il tema della libertà di parola contro la “cultura del gender” (che non significa niente) a una destra che, su questi temi, continua a oscillare tra orbanismi e putinismi intellettualmente ignobili e politicamente discriminatori e per liquidare come forme di complicità col nemico tutti i dubbi espressi sulle parti più sconclusionate della proposta, compresi quelli, molto femministi, di Arci Lesbica.
Non bisognava toccare nulla e difendere pure l’indifendibile, se no vincevano i fascisti. Che infatti, senza toccare niente, hanno stravinto. Insomma, come spesso accade in politica, una cosa nata male è finita pure peggio.