toghe grande

Dice: questo governo, con questa maggioranza, di più non poteva fare. Perciò, consideriamo che il “fine processo-mai”, legato al nome dell’ex Ministro e tuttora avvocato Bonafede, risulta “superato”: segniamo comunque un punto. È ragionevole, questo modo di riassumere “l’ascesa e la caduta della Riforma Cartabia”, avvenute nel giro di un paio di settimane.

Tuttavia, con la Magistratura in Italia, alla luce di come in trent’anni (non nei quindici giorni di prima, sia chiaro) si è venuto consolidando il suo potere compiutamente tirannico, sarebbe altrettanto “ragionevole”, rammentare il Paradigma Chamberlain (Neville): diamogli quello che chiede, seppur ingiusto, perché potrebbe pretenderne di più; un equilibrio purchessia è meglio di nessun equilibrio. E si agita, con un sorriso tirato, “la carta” in cui l’accordo è racchiuso. Segue la disfatta totale. Ricordo qui con tutto il rispetto per i “ragionevoli”, nonché per la memoria di Chamberlain.

Perché, fino a quando non si cambierà prospettiva, e gli unici soggetti che istituzionalmente hanno titolo formale per interloquire dall’interno del Processo, cioè, gli Avvocati, escluderanno l’unico strumento di resistenza e di azione politica efficace, francamente, non si farà un passo: vale a dire, per un pò, non mettere più piede in tribunale, quale pensata, sentita e condivisa azione di Disobbedienza Civile.

Sicché, Cartabia non c’entra e nemmeno Draghi: il quale legittimamente persegue uno scopo politico congruo, come quello di adempiere a una condizione del Recovery: congruo, ed importante in sé, ma affatto estrinseco all’autentico abisso umano ed istituzionale disperatamente definito “Giustizia”; che nella “irragionevole durata del processo”, tradisce solo un sintomo, per quanto rilevante.
Non c’entra il governo in carica, perciò: c’entra la perniciosa assenza di iniziativa politica e culturale dell’avvocatura che, in quanto entità collettiva, è prodiga di simposi e dibattiti, anche televisivamente riusciti; capace di prospettare una disamina critica teoricamente perfetta; ma, fin qui, rimanendo remota le mille miglia dal porre un principio ideale e di azione semplice, l’unico incisivo e temibile; con questi, non si parla più. Né in aula, né fuori.

Invece: uno è colto, uomo di mondo, e ci tiene al suo bel bicchiere d’acqua davanti il segnaposto col suo nome; l’altro, distingue fra “buoni e cattivi”, e sempre trova un magistrato di cui essere amico: quasi si trattasse di una faccenda personale, e non istituzionale e politica per eccellenza: e se ha “dottrina”, è pure tutto un evocare l’ambiguo “Dialogo fra Curia e Foro” (il punto non è il dialogo, ma il suo oggetto, le sue ragioni e cosa “i dialoganti” si dicono, e come: grattarsi reciprocamente la schiena, è la modalità largamente prediletta di questi socratici a costo zero); l’altro ancora, evoluzione (si dice per dire) dello sciasciano “paglietta” (per inciso: nessuno dei suoi “eroi” antieroici è un avvocato: qualcosa avrà voluto significare, suppongo), pensa che sia una faccenda di norme e di istituti, e magari è capace di tutto il latinorum di questo mondo, ma di un muro contro muro, mai. E questo ha la bella clientela, e chi glielo fa fare di uscire da una messa cantata così appagante; e quello è male in arnese, e che gli vuoi chiedere. E pure queste sono situazioni e obiezioni “ragionevoli”.

Ma sono anche, tutte, manifestazioni di una identità, comune e di principio, radicalmente assente. Solo accettando di essere divenuti impotenti, si può cercare di rimediare alla sterilità. E solo accettando che si tratta di un male collettivo.

Se il Procuratore Nazionale Antimafia, il Procuratore di Catanzaro e altri, mai apparsi attingere soglie letterarie e filosofiche ciceroniane (e lasciamo stare giuridiche e costituzionali, con quelle uscite da propaganda andante), più un mediocre giornalista “di partito”, con un solo inarcare un sopracciglio, hanno potuto conseguire in un niente la sterilizzazione della cd Riforma, dunque, non è colpa del Governo, ma del vuoto politico permanente, costituito pariteticamente di paura e di viltà, nel quale costoro agiscono e sanno di poter agire. “Superare Bonafede” è una frase simpatica, ma politicamente nulla.

Basta comunque un “art. 7” in imputazione (oggi inserito nell’art. 416 bis 1; sì: la sequenza alfanumerica è questa), ed è fatta; si tratta del cd “metodo mafioso”, circostanza aggravante comune a effetto speciale: che, cioè, può essere contestata a chiunque e per qualunque reato, ma può produrre un cospicuo aumento di pena. Soprattutto, però, può innescare l’attivazione del “doppio binario”, fino alle infami filiazioni delle Misure di Prevenzione e delle cd Interdittive Antimafia, che in genere sono sottratte ad ogni discorso “processuale”, pur costituendo la maggior parte del “sacro arsenale”: pertanto, basterà questo elemento, già sfuggente fuori della mimica di Marlon Brando, ma che nel limbo amorfo e nebuloso delle indagini preliminari diventa semplicemente cabalistico, e, oltre al resto, la proroga della “non-improcedibilità” sarà questione di ciclostile: come attualmente accade per la proroga delle indagini preliminari e per l’autorizzazione alle intercettazioni e, in generale, per le richieste “endoprocessuali”. Perché, “alla fine conta la sentenza”: tale è l’impudente vulgata, “ragionevole” pure lei (come se la sentenza non fosse una somma fatta di quegli addendi). Tutti foglietti uguali.

In Tribunale non si deve andare più. Punto. Diciamo per un mese (“prorogabile”). Simultaneamente, senza preavviso, impedendo ogni attività giudiziaria ed extragiudiziaria: e più incriminazioni ci saranno, per i Disobbedienti Civili, meglio sarà. Anche dando per ovvi i crumiri e i leccapiedi che, in una o più delle categorie esemplificative sopra tratteggiate, troveranno sicura accoglienza, un’azione di massa (l’avvocatura è diventata un soggetto di massa: condizione che costituisce un limite, ma che debitamente valorizzata potrebbe riuscire una forza), concertata in questi termini e cosí sufficientemente ampia, esploderebbe come una questione politica di risonante centralità. E, certo, illiquidabile con quel misto di irrilevanza e di generale indifferenza nel quale si sono fin qui immancabilmente perdute le “proteste”, le “iniziative”, le “proposte”, le “azioni”.

Alla iattanza istituzionale di chi non si è curato di diffondere le più volgari panzane, sulle “centinaia di migliaia” di processi “di mafia” che sarebbero stati “archiviati”, per effetto della iniziale ipotesi di riforma; che non ha esitato ad agitare, mediaticamente e digitalmente, le folle; e a spingere la propria arroganza fino alle soglie del ricatto emotivo (“è una riforma che favorisce la mafia”), saprebbero dire, i Signori Avvocati, cosa pensano di poter opporre? Un controesame ben condotto? Un’assoluzione dopo dieci anni? Di fronte ad una presenza stabilmente sobillatrice delle moltitudini, che misconosce l’autonomia dei Poteri Elettivi, nel momento culminante della loro eminente funzione, rispettivamente, di indirizzo politico (il Governo) e deliberazione legislativa (il Parlamento), quali bandiere di libertà pensano di far garrire?

Una restituzione del patrimonio dopo la sua riduzione a fantasma fallimentare? Un ricorso alla CEDU, mentre la “parte” continua a morire, a consumare, indifesa, la sua dissoluzione umana? Un brillante patteggiamento “allargato”? La speranza di un “pentito risolutore”? Questi e gli altri, sono tutti strumenti esautorati: la Difesa deve fronteggiare nelle sue anonime mattinate una Procura capace di sovrastare, in ogni momento e coram populo, il Parlamento, il Governo e lo stesso Processo. Questo è. E lo sanno tutti, o quasi; dal primo all’ultimo. Così come stanno le cose, la Difesa in Italia copre l’indicibile di un incubo kafkiano, ma senza Kafka a tramandarlo: solo la lunghissima teoria degli anonimi che vi sono giorno per giorno silenziosamente inghiottiti.

E non si faccia questione di orgoglio ferito o di sensibilità offesa della persona dell’avvocato; il punto non è la sua maggiore o minore bravura: tanto più sfibrante e tecnicamente provveduta sarà stata la difesa, in questo o quel “Processo”, tanto più inane, lo sforzo di fronte ai summenzionati effetti reali della Persecuzione Penale, quanto più sarà crudamente dimostrata la verità dell’assunto qui ritenuto fondamentale: la Difesa in Italia è stata sterilizzata, e chi, fra gli avvocati lo nega, o è un manutengolo in carriera, variamente infimo o altolocato, o è un imbecille senza un minimo di nerbo.

Occorre una Rivoluzione Forense. Altro che “riforma” o “semiriforma”. Quando qualcuno dovesse chiedere: “ma che volete?”. La risposta dovrà essere solo una: “che ve ne andiate”. Che se ne vada la carriera unica; che se ne vadano le “quinte colonne togate” nei Ministeri, e in quello della Giustizia in primo luogo; che se ne vada l’irresponsabilità civile; che se ne vada l’ANM e la sua infeudazione dell’Ordine Giudiziario; che se ne vada una Magistratura che non chiede mai scusa; che ha sputato su Falcone e Borsellino in vita, riducendoli a concime per la sua immonda fioritura una volta morti; che alimenta gazzettieri e lapidatori feroci e manigoldi; che vive di menzogna e nella menzogna; di raccomandazioni, di tresche, di grottesco mentre alimenta l’altrui tragico; che costituisce, in sintesi, il maggiore fattore di imbarbarimento della vita civile italiana da oltre trent’anni.

Ecco cosa un’avvocatura che non intendesse più legittimare con la sua “presenza” un tale abominio quotidiano, e che fosse così degna del nome, dovrebbe rispondere. Senza avere timore delle parole e delle azioni giuste. E una rivoluzione che parta dalle aule, non da Facebook: costerebbe, ma non esistono pasti gratis. E neanche una libertà conquistabile senza oneri gravi e conseguenti.