scuola

 Comincia a succedere sempre più spesso, troppo spesso, che pensino alla morte prima di addormentarsi; che non riescano a chiudere occhio per tutta la notte; che appaiano tristi e spenti, ogni giorno di più. E queste confessioni, a dispetto del loro pudore adolescenziale, sempre più spesso iniziano ad affiorare nel corso dei collegamenti con i professori. Ed è una richiesta di aiuto. Ma indirizzata a un adulto che può soltanto restare impotente e frastornato, oppure cocciutamente indifferente di fronte a loro. I ragazzi, che ogni mattina per quattro o cinque ore di fila vengono esposti ad un’asettica relazione didattica su Google suite; che ogni pomeriggio trascorrono il loro tempo in casa, tra compiti messaggini film alla tv, terrorizzati dall’odio che una spietata campagna mediatica ha costruito contro di loro: gli irresponsabili veicoli del contagio, i potenziali assassini dei propri genitori, nonni, zii più anziani. Per poi andare a letto, pensando che l’indomani li aspetta un’altra giornata identica alla precedente, ugualmente vuota.

Eppure, è quanto meno sospetta questa ossessiva diffamazione di un’intera categoria sociale, quando i dati continuano a dimostrare la bassissima percentuale di contagi, non solo nelle scuole, ma anche tra i giovani in generale. È sospetta l’insistenza sulla didattica a distanza, all’inizio intesa come risposta ad un’emergenza e invece, con l’inizio del nuovo anno scolastico, penetrata silenziosamente nella scuola come “didattica integrata”: un ausilio solo apparentemente innocente e discreto, in realtà imposto senza alcun confronto democratico.

Ma sulla scuola si gioca una scommessa politica molto importante: la scuola è il perno intorno a cui probabilmente ruotano progetti più ampi. Luogo di formazione dei futuri cittadini, luogo in cui mentalità e atteggiamenti sociali vengono plasmati: no, non può essere diversamente!
I giovani sono le vittime inconsapevoli di questa operazione mediatica e politica insieme. Inconsapevoli, perché molti di loro credono sinceramente di compiere un sacrificio necessario alla salvezza dei propri cari, che la loro sofferenza eroica servirà a condurci tutti quanti fuori dall’incubo della pandemia. Speranza, eroismo, sacrificio necessario: non sono sempre stati questi gli ideali che hanno condotto al massacro intere generazioni di giovani? Come non pensare a quel romanzo di Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale, in cui una frattura generazionale maturava nella cruda rivelazione della guerra, nella scoperta che quegli ideali erano solo parole vuote nelle bocche degli adulti?

I mezzi di comunicazione non sono mai neutri. Come diceva McLuhan, lo strumento in se stesso influenza il messaggio, ed è anch’esso veicolo di un messaggio più profondo: la didattica a distanza contiene uno schema comunicativo, che è soprattutto lo schema di un modello di relazione sociale.
La sensazione che lascia tale modalità comunicativa si può sintetizzare in un solo termine: svuotamento dell’individualità. Dopo essere stati esposti per ore a questo strumento, si sente il bisogno di recuperare qualcosa, di ricostruire la propria identità. È come se la parte migliore ed essenziale di noi stessi fosse stata assorbita, dimenticata.

Ma cosa ci ha sottratto esattamente? Il video incatena a sé lo sguardo, esige la presenza costante dell’osservatore, la sua immobilità ed esposizione continua alle parole di un altro: quelle del momentaneo e assoluto gestore della comunicazione. Le parole si riversano meccanicamente nelle orecchie di coloro che ascoltano, senza che possano sfuggirvi, a meno che non si spenga il pc o si vada via. Ma questo vorrebbe dire sottrarsi alla relazione. Se si vuole restare connessi al gruppo, se si vuole mantenere la relazione comunicativa, bisogna accettare questa condizione: l’essere esposti totalmente all’altro.

Quando si sta fisicamente in classe, si ha la possibilità, quasi il diritto, di distrarsi: ad esempio, si può far vagare lo sguardo fuori dalla finestra, recuperando un momento di solitudine, di silenzio con noi stessi. Sono momenti che tutti abbiamo provato da adolescenti, sui banchi di scuola. Raccoglierci per un momento, ma rimanendo sempre insieme dagli altri, protetti dal gruppo dei nostri compagni, che sentivamo sempre ugualmente vicini. La sensazione fisica di un’appartenenza, di una fratellanza, nonostante il nostro momentaneo assentarci. Questo può accadere perché in una classe reale si può stare insieme in diversi modi contemporaneamente, non occorre che ci siano sempre e soltanto parole e ascolto, parole gestite costantemente da un solo soggetto, l’adulto. La presenza fisica degli altri consente di poter scegliere la modalità che preserva meglio il senso dell’identità.

Scaraventati sulla piattaforma, non si ha più diritto a nessun’altra solitudine a nessun altro silenzio, se non a quella solitudine e a quel silenzio senza appigli che è rappresentato dalla totale esclusione dal gruppo. Chi parla, deve soltanto parlare: non può tacere e fissare l’espressione dei volti di chi ascolta, dei loro occhi. Il medium dello schermo allontana la possibilità di ogni intimità. Il dovere di stare sempre attenti e fissi ad uno schermo che non ammette distrazioni, che non ammette alcuno spazio per l’osservazione, l’attesa, il rispetto del silenzio dell’altro, alla fine svuota, annulla il senso dell’individualità. Si rimane vittime rassegnate e impotenti delle parole dell’altro.

Restare connessi alla piattaforma didattica comporta anche un’altra cosa: l’esposizione costante ad un pubblico. E nulla per un adolescente è più alienante di questa condizione. Trovare lo spazio per un bisbiglio, per una confidenza ad un amico, pur rimanendo all’interno del gruppo, questo non è più possibile. Come invece è possibile in una classe reale. Nella piattaforma non è ammesso. Si parla sempre a tutti, di fronte a tutti. “Ognuno appartiene agli altri”: sembra che la piattaforma incarni il motto ipnopedico del romanzo di Huxley, Il mondo nuovo, in cui gli individui vivono soltanto in funzione del collettivo, del bene comune.

Alla fine, rimane soltanto un guscio vuoto. E quel silenzio interiore che costituisce la risorsa più preziosa dell’individualità si riesce a recuperare con sempre maggiore fatica. Il rumore del mondo, l’elettrizzato brusio degli altri è ormai diventato un confine pericolosamente prossimo. Poggiato sul tavolo della scrivania, è un fronte tracciato dentro le nostre stesse case, un fronte verso cui occorre dirigersi continuamente, spinti dal dovere del lavoro o dello studio, un fronte che avanza ogni giorno di più, che dilaga dentro la nostra intimità.

Utilizzare l’espressione “modalità totalitaria di comunicazione” sembra appropriato ed inappropriato nello stesso tempo. Questo accade perché non possediamo ancora il linguaggio per descrivere esattamente il nuovo scenario politico e ideologico in cui oggi viviamo. Il termine totalitarismo evoca piazze gremite di folla, riporta alla mente la fanatica infatuazione collettiva per un capo. Qui invece non ci sono folle, ci sono soltanto individui isolati; non c’è un capo, un potere visibile ed identificabile: c’è invece una rete globale dentro cui ogni individuo riversa i propri pensieri, le proprie emozioni, nell’illusione di poter dispiegare al suo interno la propria autentica soggettività. E invece l’annulla ogni giorno di più, in nome di un’evidenza pubblica in cui resta privato di reale empatia, di autentico riconoscimento da parte dell’altro. L’individualità si trasforma anch’essa nel flusso ininterrotto ed autoreferenziale delle parole all’interno della rete. Ecco che lo strumento riesce a mutare l’interiorità di chi, piuttosto che utilizzarlo, ne è posseduto.

Del totalitarismo c’è l’effetto intimo e bruciante: la perdita del diritto al silenzio, alla solitudine. La sofferenza che vediamo sui volti della nostra gioventù è il segno di questo nuovo e sfuggente totalitarismo. Il segno consiste proprio nell’avvertire l’atto di un furto. Lo colgono confusamente: il loro spazio personale, entro cui ammettere le parole di un amico, oppure nessuna parola, semplicemente la prossimità di un altro, è minacciato, compromesso, accusato.
Quando si sarà dimenticato che questa esigenza è un diritto, quando il segno di questa sofferenza si perderà come un oscuro malessere in fondo alle anime, allora, ecco: la presunta libertà della rete rappresenterà per noi il surrogato dell’individualità, della soggettività perduta.