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La pandemia ha slatentizzato diverse pulsioni iscritte nel DNA "italianista" e caratterizzanti il mercato socio-politico italiano in maniera carsica sin da quando d'Italia si può parlare. (Ora riemergono in tutta la loro brutale naturalezza, ora fattori materiali e spirituali contingenti le fanno rifluire nel sottosuolo, dove "si limitano" a inquinare le falde della democrazia liberale… ). Anche il Covid-19 è una pagina dell’autobiografia politica della nazione.

Ci si riferisce anzitutto alla domanda di repressivismo: le autorità di pubblica sicurezza – inclusa perfino la "municipale", stanca di essere considerata alla stregua di un corpo che, si citi testualmente una web-star per caso, semplicemente "fa le multe" – hanno individuato in oltranzisti del restoacasismo e delatori la fonte di legittimazione per far emergere il loro "complesso del sergente Hartman" e magari, sia detto provocatoriamente, la loro nostalgia per l'orbace; abbiamo anche fatto visita alla distopia-tipo, con droni, elicotteri e inseguimenti in diretta da Barbara D'Urso (in quel caso era puro "Hunger Games", la saga appunto distopica che ha estetizzato i dettami del modernismo reazionario, cioè: riedizione massificata della barbarie politico-giuridica premoderna ma… spettacolarizzata con zelo tecnologico-industriale postmoderno e molto fondotinta).

Poi ci sarebbe un altro tratto tipico del peggio italianismo, e cioè la cultura decrescitista e anti-imprenditoriale: le multe erogate agli esercenti che, rispettando la normativa sanitaria vigente, hanno protestato a Montecitorio, la campagna di delegittimazione di FCA, la montagna di soldi regalata ancora una volta ad Alitalia e i sogni "mazzucatiani" (da Mariana Mazzucato, la teorica dello Stato-imprenditore cooptata in una delle decine di task force allestite alla bisogna) di un gigantesco Stato-imprenditore, per l'appunto, possibilmente coi compagni di scuola di Di Maio nei cda delle imprese, sono segnali inequivocabili in tal senso. Si parla di "ricostruzione come nel dopoguerra", ma all'orizzonte non si vede nessun Luigi Einaudi pronto a rimetter su l'Italia con ricette ordo-liberiste, né nessun Togliatti pronto a metter da parte il dogmatismo ideologico a favore del pragmatismo: si vedono solo leader meno che mediocri che invocano nazionalizzazioni, dirigismo (la pantomima manzoniana sui calmieri ai prezzi delle mascherine chirurgiche è preoccupante) e assistenzialismo. Sarà l'epidemia di coronavirus il grimaldello per velocizzare quella venezuelizzazione lenta del sistema politico-economico italiano unanimemente vagheggiata da un fronte politico-partitico trasversale e quasi egemone in Parlamento? Se tale rischio sembra ad oggi esorcizzato è perché il Quirinale ha di fatto commissariato Palazzo Chigi e l'UE sta spegnendo a suon di linee di credito a tassi agevolati e fondi perduti gli incendi nazionalpopulisti.

Non si è inoltre potuto fare a meno di notare la smania autonomista-personalista di tantissimi "governatori", vertici politico-amministrativi di aree territoriali tutto sommato insignificanti nel villaggio globale cosiddetto, ma così saturi di autostima e narcisismo che sembra si credano appunto dei "governatori" nel senso statunitense dal termine – per non parlare di quei sindaci che, a caccia del proprio quarto d'ora di celebrità, si sono esibiti, nelle vesti di pedagoghi del lockdown, in dirette e video-messaggi imbarazzanti, paternalisti e pagliacceschi al contempo. Le due "rivoluzioni unioniste" italiane, e cioè il Risorgimento e in misura minore la stagione fascista, furono processi top-down, non "di massa": nella quasi-balcanizzazione localista ancora in corso e nelle stupide, ideologiste tensioni tra nord e sud del Paese sono rintracciabili quelle crepe da unificazione incompiuta che nei decenni sono state tamponate con vari tipi di "mastice" (ideologico, politico-giuridico, economico, religioso: dalla propaganda garibaldina alla Cassa per il Mezzogiorno, passando per la retorica nazionalista fascista e l'interclassismo democristiano).

Questa "federazione" di (non) governatori ha avuto non pochi attriti con Palazzo Chigi: si è più volte assistito a scontri tra personalismi locali e personalismo "centrale". Nonostante l'asimmetria di legittimazione tra i vari Vincenzo De Luca (eletti) e Giuseppe Conte (nominato), a quest'ultimo sono stati consegnati un pulpito istituzionale e di conseguenza – quel che più rileva, nelle videocrazie – le reti unificate. La confezione melodrammatica e retorica nel più deteriore senso del termine con cui è stata propinata al pubblico, diretta dopo diretta, la gestione dilettantistica e clamorosamente extraparlamentare dell'emergenza ha reso digeribile quando non perfino "dogmatica" la sospensione generalizzata delle libertà costituzionali (chiunque abbia sollevato perplessità sul metodo e sul merito dei provvedimenti adottati è stato squalificato nell'immediato di volta in volta come irresponsabile, sindacalista degli untori e, da ultimo, "liberista da divano"), così da ritrovarci quasi di fronte una vera e propria sacralizzazione extra-costituzionale del verbo contiano-casaliniano; nella fattispecie, proprio Conte ha beneficiato, tra il serio e il faceto, di una ammirazione/devozione di natura finanche erotica tributatagli dagli elettori-spettatori. Il tutto, lo si ribadisca, in seguito all'adozione di un registro retorico da romanzo d'appendice, ben lungi dai livelli churchilliani evocati o anche solo da quelli merkeliani e macroniani rispetto ai quali il confronto è impietoso (anche se va detto che Conte "vincerebbe facile" se i termini di paragone fossero i due leader nazionalpopulisti anglo-americani…).

In questi mesi, se volessimo fare un bilancio, abbiamo (re)imparato che al cospetto di eventi drammatici o comunque "patologici" la reazione italianista consiste, congiuntamente o alternativamente, nella teatralizzazione/trashizzazione della risposta politico-istituzionale, nella verticalizzazione paradossalmente localista e centralista del potere con annessa fascinazione fideistica per i leader carismatici, nell'adozione di soluzioni securitarie e repressiviste e nella simpatia per ricette di politica economica "latino-americane": la via italianista alla risoluzione dei problemi è sempre, in una parola, antiliberale. Non è un caso che i membri pentastellati dell'esecutivo giallo-rosso siano stati gli utili idioti prima del regime post-totalitario cinese e poi di quello autocratico russo (e, incidentalmente, in occasione del rientro di Silvia Romano, anche degli spietati jihadisti sunniti di Al-Shabaab). A salvarci dall'abisso verso il quale tendiamo naturaliter è, internamente e in questa circostanza, quell'Italia appunto anti-italianista che anziché appostarsi alla finestra per riprendere gli untori pianifica la riapertura o, se possibile, va a lavorare forte di uno stacanovismo non-impiegatizio – insomma, si allude alla borghesia illuminata e produttiva antitetica a quella piccola-borghesia "non weberiana" che, maggioranza o minoranza che sia, è comunque assai rumorosa; a salvarci "dall'esterno" è invece l'aggancio all'Unione Europea, ancora una volta salvifica pur nella sua perfettibilità, nella sua incompiutezza. (E forse ambedue le cose si sono incontrate nella figura di Sergio Mattarella, miracolosamente trovatosi al posto giusto al momento giusto…).

Chi scrive antipatizza per le spiegazioni riduzioniste, ma forse l'unico vero fil rouge che si può individuare nella storia d'Italia, inclusa quella pre-unitaria, è proprio questa dicotomia tra italianità e italianismo.

P. S. Fatta eccezione per il nazionalismo, elemento esogeno assorbito più per ragioni strategiche che ideologiche, nelle sue contraddizioni il fascismo fu la cristallizzazione politico-istituzionale, se non addirittura l'ipostasi, della patologia genetica italianista oggetto di questo articolo.