hate speech big

Ieri il Senato ha istituito la “Commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all'odio e alla violenza” su proposta della senatrice Liliana Segre, superstite di Auschwitz e tuttora, per il suo impegno di testimone della Shoah, uno dei bersagli privilegiati dell’hate speech digitale.

L’istituzione della Commissione ha suscitato notevoli polemiche da parte dell’opposizione di destra e in particolare di Matteo Salvini, che ha denunciato il rischio di una deriva orwelliana e di una persecuzione politica e giudiziaria dello “scorrettismo” nazional-sovranista. L’uso dell’esimente libertaria è un espediente caratteristico della retorica estremista e per quanto spesso sia, come in questo caso, smaccatamente strumentale, non è comunque privo di un fondamento giuridico.

La diffidenza nei confronti dei cosiddetti reati di opinione e di forme di censura politica nel dibattito delle idee è, al contrario, resa ancora più giustificata dal carattere pericolosamente arbitrario della repressione di una condotta, l’hate speech, che – come ammette onestamente la mozione approvata dal Senato – è tuttora priva di una precisa definizione normativa e ha una qualificazione giuridicamente spuria. L’hate speech è infatti diverso dall’hate crime, che, come si spiega nella mozione, costituisce “un'offesa diretta intenzionalmente contro una vittima predeterminata”. È appunto il caso dei persecutori digitali della senatrice Segre.

Nondimeno, il concetto di hate speech ricorre ormai normalmente nel linguaggio giuridico e istituzionale, proprio perché il fatto che questo problema sfugga ancora a una precisa definizione, non lo rende meno, ma più pericoloso e inquinante per la vita civile. L’odio infatti è un fenomeno essenzialmente politico, prima che criminale. Non è un “modo” di esprimere il proprio pensiero, ma un “contenuto” di pensiero, che può avere forme di espressione asettiche e burocratiche, lontanissime dall’agitazione di piazza, dalla denigrazione personale, dall’istigazione alla violenza.

L’odio, come l’intolleranza, non è una reazione psicologica al senso di pericolo o di insicurezza, ma un’ideologia politica, un sistema di credenze che di fatto giustifica la negazione dello statuto umano, e quindi dei relativi diritti e dignità, di una parte dell’umanità. Il razzismo, che è forse la forma evolutivamente più originaria dell’odio politico, non giustificava la degradazione della vita degli “inferiori” in termini di difesa o di utilità, ma in base all’idea che i “negri” non fossero davvero persone umane. L’odio, in fondo, non è neppure un linguaggio, cioè un sistema di comunicazione, ma una vera e propria lingua, cioè una realtà storico-politica, un prodotto sociale, un deposito di valori e di convenzioni.

L’odio come perturbazione sociale è un effetto dell’odio come cultura diffusa. La misura di questa diffusione è oggi la misura del pericolo e anche della relativa inefficacia di argini giuridici all’hate speech, in assenza di efficaci contravveleni politici. A rendere drammatica la situazione, oggi, non è solo la presenza di canali mediatici in grado di moltiplicare la potenza dell’odio e di “industrializzarne” la diffusione; è anche il fatto che oggi l’odio è un’ideologia di massa, se non prevalente in termini numerici, vincente in termini politici. I distinguo abilmente capziosi degli odiatori – come ieri Salvini – non sono il vero problema. Il vero problema è che la repressione, oltre a essere giuridicamente problematica è politicamente inutile finché il discorso dell’odio anziché incontrare forti sanzioni sociali (discredito e isolamento), riscuote un fortissimo successo e aiuta il processo di vittimizzazione degli odiatori.

@carmelopalma