giustizia

È la prima volta che uno slogan viene direttamente trasfuso in un testo di legge.
Accade nel diritto penale, dove prudenza imporrebbe, vista la delicatezza della materia, un equilibrio maggiore nell’evitare di trasformare le chiacchiere da bar, i tweet e le scritte sulle felpe in norme di legge. Invece è capitato e c’è da chiedersi dove condurrà questa deriva.
La difesa è sempre legittima è una classica norma manifesto, con la contraddizione tipica di contenere un forte effetto simbolico a fronte di un contenuto giuridico pressoché nullo.

Se la difesa diventa pretesto per offendere smette di essere difesa che, quindi, non potrà essere “sempre” legittima. Allo stesso modo, la legittimità presuppone il mancato superamento del limite legale, il che non potrà avvenire “sempre”, ma solo nel perimetro della norma. Infatti, al di là del roboante proclama, la norma approvata contiene un testo confuso che non mantiene ciò che promette: non rende la difesa “sempre” legittima e non evita, nemmeno a chi agisce perché costretto da un pericolo di aggressione, un accertamento dei fatti mediante indagine della competente Procura della Repubblica. Tanto è vero che neppure chi oggi brinda per il cambiamento epocale è in grado di specificare quali casi del passato, da domani, vedrebbero esiti diversi da quelli che hanno avuto.

La verità è che l’aspetto normativo non è quello davvero rilevante. Quel che conta è il riflesso simbolico di chi usa il diritto penale come strumento di propaganda, perché ha compreso che oggi le idee di “legge ed ordine” creano consenso con la semplice evocazione, senza bisogno di modificare i meccanismi di funzionamento delle norme, che restano materie per addetti ai lavori. Questo è l’aspetto peggiore della riforma appena approvata: non il testo, che contribuisce solo a rendere più confusa la legittima difesa senza mutarla nella sostanza, quanto il definitivo prevalere del percepito sul reale nella redazione delle norme anche nel diritto penale. Materia che resta, in assoluto, la più delicata perché invade strutturalmente le libertà fondamentali.

Non siamo ancora al livello della Germania nazista che assunse il “sano sentimento del popolo” a criterio ultimo della punibilità o a quello dell’Unione Sovietica comunista che elevò a criterio decisivo del punibile gli “interessi del proletariato interpretati alla luce della coscienza rivoluzionaria”. Sarebbe, tuttavia, ingenuo non segnalare i pericoli della deriva sostanzialista in atto, in cui si legifera con gli slogan e non sulla base dei principi costituzionali. Slogan ancora più pericolosi là dove si promette ciò che non si può mantenere, vale a dire, in questo caso, la licenza di sparare in casa propria senza che nessuno venga a chiederne ragione e conto.

La nuova norma, quella appena approvata, non lo consentirà, come non era consentito prima. Continuerà ad essere doveroso accertare che non vi fosse desistenza da parte del ladro e che sussistesse il pericolo di aggressione, alla persona oltre che ai beni. Qualcuno, invece, la interpreterà diversamente, da sovranista in casa propria e correrà ad acquistare un’arma, pensando di poterla finalmente usare entro i confini di proprietà, magari invocando il “grave turbamento”; criterio, questo sì, introdotto con la nuova legge quale scusante per aver agito in eccesso colposo, derivante dalla situazione di pericolo in atto.
Quanto giovi alla sicurezza collettiva l’aumento delle armi in circolazione resta un mistero ma nel mondo del percepito le questioni reali non sono ammesse, neppure in forma di dubbio.