Le manette, totem gialloverde di un'Italia abbrutita
Diritto e libertà
Le manette sono il totem di individui umanamente – occorre puntualizzarlo: non solo politicamente, anche umanamente – miserabili.
La centralità politico-mediatica che hanno riguadagnato dopo gli "anni d'oro" di Mani Pulite (chi battezzò l'inchiesta non a caso pescò l'espressione in un frasario da Santa Inquisizione) e, più recentemente, dopo la lunga crociata manettara dei Torquemada dell'antiberlusconismo è la prova dell'ennesima, ciclica balcanizzazione politico-istituzionale e civile che affligge il Belpaese.
Le manette, infatti, simboleggiano la cattura, che in qualunque fase storica di radicalizzazione e dunque disumanizzazione dell'individuo – quale quella che stiamo vivendo – viene elevata a momento catartico, liturgia secolare tramite cui dare sfogo alla propria frustrazione nell'umiliazione del reo o perfino dell'inquisito, meglio ancora se si tratta di un nemico. C'è sempre qualcosa di ancestrale, di pre-politico, in una folla ("fisica" o virtuale) che esulta al cospetto dell'arresto di chicchessia, o magari di un potente, di un ex potente o perfino dei parenti di quest'ultimo.
Durante questa settimana le masse e l'establishment grillini hanno espresso giubilo di fronte l'arresto di tre settantenni (i coniugi Renzi, genitori dell'ex premier, in custodia cautelare nella loro abitazione, e Roberto Formigoni, longevo governatore della Lombardia, condotto nel carcere di Bollate), così certificando il proprio totale disinteresse, se non addirittura una vera e propria inconfessata disapprovazione per la funzione rieducativa della pena, proclamata nella pur glorificata Costituzione, oltreché – nel primo caso – per la presunzione di non colpevolezza, altro principio costituzionale del tutto estraneo all'ideologia pentastellata e, in altro modo, a quella salviniana – e non solo: quella giustizialista è una sub-cultura che permea pure la mentalità d'insospettabili: dopo l'arresto di Enzo Tortora, Camilla Cederna scrisse che «non si va ad ammanettare uno del cuore della notte se non ci sono buone ragioni», facendosi portavoce di una convinzione assai diffusa nell'immaginario collettivo.
Che un avvocato, ancorché grillino, mimi compiaciuto il gesto delle manette alludendo ai genitori dell'ex premier – per di più dopo aver appena votato per sottrarre al sindacato dell'autorità giudiziaria un alleato di governo, così mettendo in pratica il corollario più tipico del giustizialismo e del moralismo, e cioè la specularità tra persecuzione e autoassoluzione – è la prova dell'infondatezza del distinguo fra giustizialismo inteso come sinonimo di peronismo e giustizialismo inteso come contrario di garantismo: il nazionalpopulismo (peronista o grillino: nazionalismo, autarchia, corporativismo ecc) è naturaliter antigarantista; la società chiusa è, tendenzialmente, un pacchetto antiliberale unitario.
E l'esecutivo giallo-verde è proprio il prodotto antiliberale dell'incontro fra giustizialismo grillino e securitarismo salviniano: l'uno individua nel carcere e nel sospetto inteso come anticamera della verità la panacea di ogni male, l'altro nella militarizzazione e nella concessione della briglia sciolta alle autorità di pubblica sicurezza l'unico modo per ottenere la pax sociale.
Più che col contratto di governo, il patto consociativo fra i due partiti di governo si è suggellato nella spettacolarizzazione dell'arresto di Cesare Battisti, col trionfalismo gemello dei due ministri-sceriffi – Salvini e Bonafede – cacciatori di taglie per un giorno. Nel frontespizio dell'originale del contratto di governo avrebbero dovuto mettere proprio le manette, punto di convergenza di due populismi diversi ma egualmente antiliberali.
Ma come al solito si tratta di un gioco pericoloso che rischia di ritorcersi contro gli stessi giocatori, perché porta acqua al mulino di un potere – quello giudiziario – già di per sé assai predisposto a straripare (gli esempi si sprecano: solo nella storia recente la strumentalizzazione delle manette è stato un boomerang tanto per Berlusconi, destinatario di un invito a comparire qualche mese dopo aver proposto ad Antonio Di Pietro il ministero della giustizia; quanto per il fronte antiberlusconiano, falcidiato, poco più di dieci anni fa, proprio dall'intervento a gamba tesa di una procura).
Erodere gli anticorpi a presidio della separazione dei poteri teorizzati dai filosofi liberali e codificati dai padri costituenti dei pressoché tutti i paesi occidentali – consapevoli che quella a estendersi oltremisura è una tendenza fisiologica e non patologica di ogni potere – per trarne un beneficio di breve termine è una scelta antistrategica che le maggioranze pro tempore italiane continuano a fare.
Non resta che registrare la nemesi storica di cui è vittima un paese che ha dato i natali a Cesare Beccaria – nonché un paese cattolico, teoricamente consapevole degli effetti collaterali del Crucifige!, e cioè delle condanne a furor di popolo – che eleva le manette a paradigma del riscatto sociale e politico, che tende ciclicamente ad assolutizzare la repressione quale momento essenziale della dialettica inter-partitica.