Governo e consenso: le forme insostenibili della democrazia contemporanea
Diritto e libertà
La riflessione di Bruno Montanari pone una questione centrale. Riguarda tutti i sistemi liberaldemocratici dell’Occidente, non solo il nostro. Nell’essenziale: come raccordare governo e consenso della “polis” (intesa come collettività, che assume come principio ordinante l’autogoverno). In un contesto, come quello economico e sociale del nostro tempo. Nel quale quello necessario richiede (per essere efficace e solido) un numero altissimo di “mediazioni”. Se si vuole che se ne senta “influente” sulla sua formazione il maggior numero possibile dei coinvolti. Il che è facile solo a dirsi.
Il problema è molto complesso. Non vi sono risposte semplici. Investe il “potere” politico e la sua “funzione”. Che resta elementare: rendere “regolata” la convivenza. Ma che presuppone (perché quelle regole si adottino e soprattutto si osservino) elementi di conoscenza, che nessuno ordinariamente ha. Il nostro tempo deve fare i conti con novità stravolgenti. Che investono non solo il problema delle dimensioni possibili (geografiche ed umane) della “polis”. Si estendono anche a quello della disomogeneità elevatissima della condizione “culturale” dei singoli appartenenti a quelle che una volta erano formazioni politiche “definite” da uno spazio fisico e da presupposti di appartenenza (cittadinanza), legati ad una condivisa cultura. I molti “formanti” di questa (lingua, religione, tradizioni, convinzioni, etc.) sono divenuti sempre meno condivisi. Convivono, in spazi prossimi, culture anche molto diverse. Non è facile integrarle. Avverrà, ma in tempi necessariamente lunghi che non possono però essere attesi. Perché la vita chiama i presenti. Anche l’attività di “orientamento” (quella che una volta chiamavamo “educazione”) è divenuta (quasi) impraticabile. Non dico quanto ai “valori”, ma persino quanto alle “conoscenze” (che una volta ne costituivano il fondamento elementare generale). Viviamo in un tempo nel quale ognuno sceglie cosa e da chi conoscere. E nel quale manca perciò ogni verifica di esperienza. La propria perché ovviamente da costruire. L’altrui, perché se ne diffida di principio. E dunque?
Il problema, prima ancora che politico, è culturale. Ma poiché la politica è per l’oggi, occorre pure tentare di riordinare le idee. A partire da quelle relative al nostro “particulare”.
La prima questione è: con quale approssimazione possiamo oggi “definire” uno spazio “politico” (oggetto di un “unico” governo)? Ha senso immaginarlo coincidente ancora con quello circoscritto di una volta (degli stati “nazionali”)? La mia impressione è che (per ragioni economiche, che oggi prevalgono anche sulle militari) non lo sia affatto (al di là che ci piaccia o meno). E dunque: Europa (meglio se – come mi sembra la sola realistica possibilità – in una prospettiva “federale”).
Il secondo problema è: quale può essere oggi il “popolo”? E poiché non mi pare che la risposta possa essere “un insieme culturalmente omogeneo” è da questa che dobbiamo partire. Dunque: come “riconoscerlo”? “Chi” è il “popolo”? Con quali regole lo “definiamo”? E, ciò chiarito: quali forme di controllo/incidenza possono essere efficacemente studiati per coniugare “governo” (lontano) e periferie (singoli governati)? Non lo so. Ma non credo lo sappia alcuno. La crisi che viviamo è proprio conseguenza dello smarrito rapporto “vivo” tra governo e governati. Che va dunque ricostituito. Come? È da discutere.
Molti stanno immaginando questo rapporto “vivo” in una relazione “diretta” di partecipazione generale alla decisione. Sarebbe un errore tragico. Quel che è indispensabile è un “consenso” e non una “conta”, un fatto che implica “delibazione” che prepara la decisione. Non certo più nelle forme (oggi) paralizzanti del parlamentarismo antico, ma nemmeno in quelle devastanti della decisione “emotiva” immediata (la democrazia diretta è quella che rende manifesta, per chi ne avesse smarrito l’idea, una riunione condominiale: una rissa che prepara risse di rivincita). Come sempre, la decisione emotiva sarebbe solo “fideistica” adesione ad un “capo”. Occorrono forme nuove. Di articolazione, ad esempio, del sistema decisorio, nel quale trovi uno spazio trasparente (e non surrettizio: vedi decreti-legge) una adeguata diretta capacità degli esecutivi. Proprio per questo, esposta anche tuttavia ad un sistema di inibizione/controllo che ne freni (senza paralizzarne l’azione) le possibili derive autoritarie. Come? È da studiare.
E ancora: in questo rapporto “vivo” tra governo e governati, quale ruolo devono avere le “competenze”? Possono essere “indipendenti” da ogni valutazione politica del loro operato? Ne dubito molto. In un sistema complesso (che voglia restare anche di “autogoverno”) nessun “decisore” deve poter essere indipendente da coloro per conto dei quali decide. E deve essere dunque esposto (in modalità compatibili con la funzione) ad un controllo “politico” (non “giudiziario”) costante. Di certo, il nostro vigente sistema non segue questo modello e altrettanto di certo non funziona. Ma non meno di certo, perché accentuatamente segnato da “indipendenze” (che altrove mancano). In quali forme si deve intervenire per correggere? Sono da studiare.
La conclusione è dunque – a mio modo di vedere – una sola. Le cose sono giunte ad un tale livello di insostenibilità (per le tensioni che generano e per le derive politiche che potrebbero innescare) da rendere indispensabile dialogare con tutti. I governanti di oggi sono figli di quelli di ieri. Sono la risposta istintiva (basti osservare con quale rapidità di progressione cresce il loro consenso) alla palese insipienza (nella migliore delle valutazioni) di quelli di ieri. E tuttavia non ho dubbi che siano anche molto migliori moralmente (nella gran parte dei casi) di quelli di ieri.
Dobbiamo discutere e confrontarci punto per punto con tutti. Molto laicamente. E dunque con totale reciproca disponibilità all’ascolto. Dobbiamo convincere che non si esce dalla crisi rafforzando puramente e semplicemente l’esecutivo. Sulla base dell’idea che in politica si “comanda”. Ne usciamo se accettiamo tutti di tornare all’idea che in politica si “esegue” (la volontà collettivamente fissata attraverso procedure concordate ed osservate). Lo possiamo fare anche dividendoci su molto di specifico. Ma accettando tutti che il punto di vista “prevalente” è sempre provvisorio. A dispetto di qualunque codificazione. Conta la gestione. Il “diritto” e non la “legge” (essenziale, ma utile se non pretende di essere totalizzante). Non è più tempo di assetti rigidi.
Il modo migliore di cercare la soluzione “possibile” (storica), sarebbe, a mio modo di vedere, attivare un processo costituente esplicito (un’assemblea eletta allo scopo, sul modello di quella del 1946, alla quale dobbiamo, per altro, una costituzione che, nella parte più “sensibile”, quella dei valori, mantiene una sicura perdurante e attuale validità). Mi viene spesso obbiettato (conversando) che ciò sarebbe incompatibile con la contemporanea esistenza di un luogo della “sovranità” (il parlamento). Non è così. Il titolare della “sovranità” è il popolo. Che ne delega temporaneamente l’esercizio al parlamento. Ed è, a mio modo di vedere, del tutto compatibile con il quadro delle regole vigenti che esso possa perciò esprimere, attraverso una consultazione allo scopo, una contestuale più limitata delega d’esercizio (la revisione della forma di governo) ad un organismo parallelo (un’assemblea costituente), che vi provveda con il necessario “totalizzante” impegno.