cappato

Quando Marco Cappato portò Fabiano Antoniani a morire in Svizzera fui critico circa l’uso mediatico del caso, cui peraltro Cappato non era nuovo. A distanza di qualche mese devo riconoscere che al netto di alcune valutazioni personali che non cambiano (ma sono a questo punto anche del tutto irrilevanti) la scelta di Cappato ha oggettivamente avuto il merito di accendere un riflettore verosimilmente definitivo sul tema del fine vita.

Da quel momento si è innescata una serie di eventi conseguenti tra loro, quasi per inerzia come in un domino, di cui il processo all’esponente radicale - apertosi in queste ore - è probabilmente solo una tappa intermedia, posto che l’ultimo atto dovrà consumarsi in Parlamento con l’approvazione di una prima storica legge in materia; e questo potrebbe magari accadere prima ancora che Cappato vada assolto dalle accuse formulategli dal Tribunale di Milano, come è giusto che sia.

La vicenda è grottesca per varie ragioni, e come poche altre illustra il funzionamento della nostra macchina-Stato. Ci sono plurimi ambiti e livelli delle istituzioni e delle burocrazie, differenti entità amministrative che in tempi diversi, da diverse prospettive e con diversi compiti e responsabilità trattano sostanzialmente gli stessi temi: che poi sono i casi, le situazioni concrete della nostra vita. In estrema sintesi e per semplificare diremo che c’è il Parlamento che deve fare le leggi e la Magistratura che deve applicarle, benché la realtà quotidiana non si risolva affatto in un asserto così semplice ed essenziale.

Tuttavia la semplificazione ci aiuta a capire la vicenda di Antoniani e Cappato, che troppo complessa in fondo non è: in Italia non esiste una disciplina normativa del fine vita, non c’è la possibilità di mettere legalmente fine alle sofferenze di chi è inchiodato, immobile, ad un letto senza la minima prospettiva di rialzarsi. Chi si è nel tempo trovato in questi casi - e quanti potremmo citarne negli anni - ha puntualmente chiesto allo Stato di intervenire per colmare quel vuoto legislativo. Lo ha chiesto “allo Stato” perché il cittadino normalmente si affida all’entità statale nella sua accezione più ampia, e in un certo senso anche simbolica: “lo Stato” appunto, che per lui è tutto e in un colpo solo, dal Parlamento al Tribunale, dalla Regione all’ospedale, fino all’ultimo degli uffici pubblici, e via dicendo.

La cosa drammatica è che il cittadino che evoca lo Stato come icona di unità ha una profonda ragione sostanziale. A lui non compete la ripartizione tra gli ambiti e i livelli diversi, né deve oltremodo interessargli la prospettiva da cui si guardi al problema. Quando appunto ha un problema si aspetta che sia “quello Stato” a rispondergli, attraverso chi abbia competenze e strumenti per risolverlo, se possibile. 

Così, e riprendiamo il filo interrotto, è ben comprensibile che Antoniani (o Dj Fabo) a un certo punto chiami il Presidente Mattarella per mettere fine a una situazione per lui insostenibile. Lo sa benissimo che è il Parlamento che deve fare la legge, ma per lui come per tutti noi il Presidente della Repubblica è la massima rappresentazione, peraltro anche elettiva, di quel portato simbolico di cui il Parlamento è parte essenziale, al pari del Governo e della Magistratura. E’ lui lo Stato. E da uno Stato che è sintesi di parti differenti, per quanto indispensabilmente autonome, è inevitabile attendersi un comportamento che a quella stessa sintesi sia in qualche modo coerente. Per questo chiama Mattarella. Anche se si sa che Mattarella, vigente questa Costituzione, non potrà materialmente fare di più di quel che già fa: un richiamo, uno sprone, una visita e magari una carezza. Lo sa Fabo, lo sanno tutti.

I giudici da parte loro sanno perfettamente che questa legge ci vuole, ma che possono farci? La giurisprudenza ha nel tempo sempre più spesso colmato i vuoti legislativi, ma è evidente che l’ermeneutica trovi talora dei limiti invalicabili alla propria ispirazione creativa. Quale è ad esempio il codice penale.

Si potrebbe aprire una lunga riflessione sulle responsabilità di una politica che non sa più decidere, ma è poco interessante e ormai del tutto inutile. E’ evidente a tutti che la politica è sempre meno il luogo originario ed autentico delle scelte: la politica segue, consegue a quel che detta altrove un dibattito pubblico sempre più frammentato e a sua volta permeato di espressioni radicali: che sono sempre più forti e perentorie, sempre meno meditate, sempre più immagini ed icone e sempre meno costruzioni razionali.

E se è dunque la potenza del dibattito pubblico, meglio se digitale e iconografica, a generare la consapevolezza del “dover decidere”, è abbastanza inevitabile che la strada verso la soluzione sia quella per la Svizzera. E poi la clinica, la morte, la tv, i microfoni, le emozioni, l’indignazione, la pietà, la solidarietà. E poi ancora, proprio perché lo Stato non sa essere più sintesi di niente, ed è anzi coacervo confuso di competenze e funzioni distinte e disarticolate, inevitabile arriva l’apertura di un fascicolo in procura, naturale e doveroso automatismo che toglie tanti dall’imbarazzo.

Pensateci. Quale alibi migliore della fredda oggettività del proceduralismo, dell’atto dovuto, per mascherare l’incapacità di interpretare in termini responsabilmente soggettivi i nostri rispettivi compiti istituzionali? I Pm che vagliano il caso chiedono però subito l’archiviazione, provando a leggere il contesto vivo di questo caso: complesso eppure al contempo semplice, per diversi motivi che abbiamo provato a riassumere. Ma è un fatto, lo dicevamo poc’anzi, che ciascuno fissa dove ritiene giusto l’asticella del limite. Così il Gip, in dissenso, ordina ai magistrati che avevano chiesto l’archiviazione di formulare il capo di imputazione e chiedere il giudizio. Secondo lui Cappato ha aiutato Fabo a morire, e questo è più che sufficiente per mandarlo alla sbarra.

Può anche essere che da un punto di vista tecnico questo giudice abbia delle oggettive ragioni, ma non è detto che saranno sufficienti. Personalmente ho qualche dubbio a riguardo. Quello che va in scena al Tribunale di Milano è infatti ben di più di un processo a un disubbidiente civile. E’ un tappo di silenzio che salta dopo decenni di braccia spalancate in segno di rassegnata impotenza, di silenzi, di gabbie procedurali, di “mi spiace” bisbigliati e di vibranti quanto vane proteste. E’ un redde rationem di lunga memoria, che viene dopo sterili (benchè mai inutili) dibattiti parlamentari, infiniti rinvii e vergognosi tatticismi elettorali. Anni in cui tanta gente è morta male e dopo indicibili sofferenze, sia proprie che dei propri cari.

Forse un po’ lo avevano intuito i Pubblici Ministeri che avevano chiesto l’archiviazione, forse no. Forse la loro era solo una valutazione in punto di diritto, ma è evidente che nelle argomentazioni usate traspare quel “contesto vivo” di cui scrivevo sopra. Che altro non è se non la storia di questi lunghi anni di sofferta sospensione dei diritti più intimi e irrinunciabili, e con essi di intere vite.

Il caso di Fabo, purtroppo o per fortuna, è stata la goccia decisiva per far traboccare il vaso. Bravo Cappato che lo ha capito: sono convinto che sarà assolto proprio per questo, perché in quell’aula si scriverà una pagina nuova, anche per conto di una politica che ha rinunciato a farlo. 

Capita poi che nella giornata in cui si mette sul banco degli imputati un disobbediente civile in nome di una rigorosa ratio procedurale, la principale notizia diventi in fretta il pestaggio di Ostia. Non scopriamo oggi che a trenta chilometri dal Parlamento che non ha mai saputo decidere per Fabiano e per quelli come Fabiano, a trenta chilometri da tutti più importanti simboli istituzionali c’è una città ormai saldamente nelle mani di un clan mafioso. Una città in cui un delinquente si sente addirittura libero di prendere a testate e a bastonate un giornalista di fronte alle telecamere.

La cronaca ci dice che questo delinquente gira (o ha girato a lungo) libero per strada, mentre il disobbediente civile è finito sotto processo in pochi mesi con un’accusa comunque molto grave. E per quanto quest’ultima affermazione possa sembrare una facile forzatura essa è purtroppo la pura e semplice verità. Non dubito - come sostiene qualcuno - che una simile e manifesta violenza giocoforza determinerà qualche conseguenza per il miglior futuro di Ostia, ma questo non fa che confermare tutto ciò di cui ho scritto sinora: siamo aggrappati al caso, all’emozione, a un evento che “rompa” un formalissimo equilibrio di braccia spalancate, di “mi spiace”, di rassegnata impotenza, di continue rinunce.

Così, da solida icona comunitaria lo Stato si scopre progressivamente sempre meno unito, sempre meno forte, sempre meno espressione di sintesi. E sempre più participio passato.