Tar, musei e 'stranieri'. Non è la sentenza, ma la legge a essere sbagliata
Diritto e libertà
La notizia del giorno è la bocciatura, da parte del TAR del Lazio, di cinque delle venti nomine a direttori dei musei da parte del Ministero dei Beni Culturali. Il TAR ha accolto l’impugnazione proposta dal ricorrente, censurando in particolare due vizi: da una parte, lo svolgimento del colloquio (“a porte chiuse”) e il metodo di valutazione dei candidati e, dall’altro, il fatto che al bando abbiano partecipato anche cittadini stranieri.
Tralasciando il merito della prima controversia, è sulla seconda che vogliamo focalizzare la nostra attenzione: è stata quest’ultima, infatti, a scatenare i commenti e i rilievi della politica e dell’opinione pubblica. Per parte sua, il ministro Franceschini ha affidato a un sintetico, ma assai loquace, tweet il proprio commento: "Il mondo ha visto cambiare in 2 anni i musei italiani e ora il TAR Lazio annulla le nomine di 5 direttori. Non ho parole, ed è meglio...".
Gli effetti positivi dell’apertura dell’amministrazione pubblica a personalità di valore, anche straniere, non sono in discussione: ciò che ci sembra opportuno evidenziare è che il TAR, stavolta, si è limitato ad applicare la legge vigente, per come essa è scritta. Nella sentenza si legge, infatti, che il legislatore abbia deciso di derogare "all’articolo 19, comma 6, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni", che contingenta il reclutamento di personale per incarichi dirigenziali anche tra soggetti esterni alla P.A., ma che lo stesso non abbia fatto rispetto all’art. 38 d.lgs. 165/2001, che fissa il requisito della cittadinanza italiana per l’accesso agli incarichi dirigenziali.
In effetti, argomenta il TAR, se il legislatore avesse voluto derogare anche a quest’ultimo criterio avrebbe dovuto espressamente menzionarlo (come ha fatto per l’altra norma): "[…] solo tale operazione avrebbe potuto consentire, in disparte ogni valutazione di compatibilità costituzionale, l’ammissibilità di cittadini non italiani di partecipare alle selezioni per l’assegnazione di un incarico di funzioni dirigenziali in una struttura amministrativa nel nostro Paese". Non avendolo fatto, l’atto di nomina è risultato viziato.
È una sentenza che può lasciare con l’amaro in bocca (lo ripetiamo, a scanso di equivoci: aprire i ranghi della P.A. a personalità di valore, a prescindere dalla loro cittadinanza, è cosa buona e giusta), ma che difficilmente sembra censurabile. Anche fare appello a una maggiore elasticità e discrezionalità dei giudici non sembra opportuno: il compito del giudice è di applicare la legge per come essa è, non per come la si vorrebbe.
Non spetta, infatti, all’ordine giudiziario supplire alle mancanze del potere politico: se il giudice non è più solo bouche de la loi, come lo avrebbe voluto Montesquieu, non può però neanche diventare “sovrano” (per ricordare una efficace espressione di Robert Bork).
Questo caso è, poi, l’ennesima testimonianza delle nefaste conseguenze dell’attivismo legislativo. Nei giorni scorsi è saltato all’occhio dei commentatori un altro esempio di quanto appena scritto: all’art. 6 della (appena approvata) legge sul cyber-bullismo si fa infatti riferimento "al reato di cui all’art. 594 c.p.", ovverosia all’ingiuria. Peccato che quel reato, però, non esista più, essendo stata la condotta depenalizzata lo scorso anno. La verità, allora, è che il legislatore ha finito per produrre un moloch di norme talmente ampio e intricato che neanche lui sembra più in grado di distinguere, di volta in volta, quali leggi applicare e quali, invece, derogare o abrogare.
Oggi non è un bel giorno per il mondo della cultura italiano, ma attribuirne la responsabilità ai giudici amministrativi significa guardare al dito e non alla luna. È dal legislatore, infatti, che dobbiamo pretendere maggiore attenzione e coerenza quando decide di varare riforme così importanti e necessarie.