TAP e non solo. Le radici politico-culturali della 'TAR-crazia'
Istituzioni ed economia
Il TAR del Lazio ha sospeso il trapianto degli ulivi già espiantati dal cantiere di San Basilio e il progetto del gasdotto TAP, che dovrebbe sbarcare sulle coste pugliesi, ma vive da anni in una perenne sospensione giuridico-operativa, nel moltiplicarsi di opposizioni, ricorsi e resistenze popolari per la difesa dell'ambiente e, ça va sans dire, della democrazia. Tutto assurdo, secondo copione.
Non c'è di che sorprendersi, anzi ci si sarebbe dovuti meravigliare del contrario in un Paese in cui il ricorso al TAR è la continuazione della politica con altri mezzi e il giudice amministrativo è diventato, anche suo malgrado, un garante dell'equilibrio dei poteri più che della correttezza delle procedure amministrative, a maggiore se il "diritto", nel gran bordello del federalismo all'italiana, ha spesso e volutamente un tenore ambiguo ed equivoco.
Per questo sarebbe il caso di non dare ai TAR le colpe che non sono dei TAR, ma della stessa politica, che attribuisce un abnorme protagonismo al giudice amministrativo, o direttamente, conferendogli il potere di decidere su tutto - dai parcheggi pertinenziali alle basi militari - o indirettamente, incasinando i livelli di competenza e di "sovranità" nei rapporti politico-amministrativi tra il centro e le periferie istituzionali dello Stato, di modo che qualunque opera o intervento implichi, come premessa, un contenzioso da sbrogliare.
Un'ulteriore responsabilità politica deriva poi dalla natura strutturalmente particolaristica della rappresentanza popolare, sia in senso orizzontale, nella difesa di interessi micro-settoriali, sia in senso verticale, nella tutela di interessi localistici. Nella politica italiana, l'unico interesse generale democraticamente ammissibile è una sorta di media aritmetica degli interessi particolari politicamente rappresentati (a discapito di quelli non rappresentati o non rappresentabili: ad esempio quelli delle generazioni future, o quelli dispersi tra una miriade di "titolari" non organizzati o inconsapevoli della posta in gioco).
Dunque è normale, cioè patologicamente fisiologico che in Italia la lotta dei No TAP appaia non solo legittima, ma più popolare (cioè più "di popolo"), della decisione di realizzare un’opera che non avendo beneficiari specifici - se non l'intera comunità nazionale - appare per ciò stesso anti-popolare e legata al solo interesse economico delle imprese coinvolte. La parossistica litigiosità dei rappresentanti del popolo non dipende dunque solo da ragioni istituzionali, ma soprattutto politico-culturali. Le stesse che portano i loro rappresentati a parteggiare per ogni protesta particolare, in cui naturalmente si identificano, contro ogni progetto generale, che come qualunque “cosa pubblica” in Italia non è di tutti, ma di nessuno, finché qualcuno non se ne appropria.
Il primo partito politico italiano, il M5S, oltre a un’ampia compagine di sindaci e amministratori locali è oggi impegnato a impedire un’opera che trasporterebbe 10 miliardi di metri cubi di gas naturale all’anno, per la difesa di 221 ulivi da espiantare e trapiantare e del sogno di un sistema energetico affrancato dalle fonti fossili. Sembrerebbe pazzesco, invece in Italia è “normale” e quindi anche vincente sul piano del consenso, passaggio di rito al TAR compreso.
Per venire a capo di questo paradosso servirebbe fronteggiarne la radice profonda – che è appunto politico-culturale e ideologica – ma nessun partito oggi può farlo, perché ciascuno (PD compreso, come dimostra proprio la vicenda TAP), prima di essere un soggetto nazionale, è un insieme componibile di particolarismi economico-territoriali.