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Ha fatto storcere a naso a parecchi la decisione del ministro della cultura Dario Franceschini di includere sette stranieri tra i venti direttori di museo nominati. Sugli scudi prevedibilmente la Lega che parla di “spregio agli esperti d’arte italiani”. Sulla stessa linea Vittorio Sgarbi, secondo cui Franceschini “mortifica il suo esercito, non difende le truppe che ha”. Fa eco il Movimento 5 Stelle che parla addirittura di “colonizzazione”.


Certamente le nomine, che sono il risultato dell’indizione di un concorso internazionale, prestano il fianco a un’obiezione abbastanza scontata. Non c’erano sette italiani in grado di gestire un museo? Ovviamente sì, probabilmente molti di più, ma non è questo il punto. La questione è fondamentalmente se sia opportuno che un incarico altamente qualificato sia attribuito scegliendo solo tra cittadini italiani oppure se la qualità della scelta possa solo guadagnarci se è possibile attingere ad un parco di candidati più vasto.

Merita di essere notato come il conferimento di un incarico ad uno “straniero” che fa così scandalo nell’Europa di oggi, che pure ama dirsi unita ed integrata, fosse paradossalmente un fenomeno assolutamente normale in alcuni dei periodi più artisticamente fecondi della storia europea.
 L’Europa ed anche l’Italia erano composte da una molteplicità di piccoli stati, eppure l’arte non guardava minimamente alle frontiere. Per secoli re, duchi e principi cercavano di portare al proprio servizio i migliori artisti del continente, non certo solo quelli che provenivano da dentro i confini del proprio Stato. Pittori e scultori giravano l’Italia e l’Europa, passando da una corte all’altra, offrendo il proprio talento ai migliori committenti.

E come per gli artisti, anche la nazionalità contava poco in altri settori. Pensiamo ai grandi navigatori. Il genovese Colombo, il vicentino Pigafetta ed il portoghese Magellano esploravano il mondo per i re di Spagna.
 Contava qualcosa dov’erano nati? Ben poco; al massimo si trattava di tradurre i cognomi. Colombo diventava Colón, così come il pittore Hiernonymys Bosch all’occorrenza diventava El Bosco.

Ma al di là delle commesse e degli incarichi, un po’ tutto in Europa funzionava curandosi abbastanza poco della “nazionalità”. Le famiglie regnanti si intrecciavano creando connessioni politiche che prescindevano totalmente dalla geografia e spesso si passava disinvoltamente da un trono all’altro; magari si nasceva a Madrid, si diveniva duchi a Parma e Piacenza, poi Re di Napoli e Sicilia e si finiva la carriera come Re di Spagna. 
E anche nella Chiesa non si guardava il “passaporto”: Sant'Antonio “da Padova”, per esempio, era di Lisbona. San Nicola “di Bari” veniva dall’Antalya. 


Per non parlare, naturalmente, dell’intensa attività internazionale dei mercati e persino dei banchieri. La “finanza internazionale”, per molti versi, l’hanno inventata i fiorentini che già nel quindicesimo secolo insediavano le proprie attività a Londra e a Bruges. Certo, i mezzi a quel tempo erano quelli che erano: non c’erano internet, i treni, gli aerei e le automobili; eppure per molti secoli l’Europa è stata un continente straordinariamente globalizzato sul piano economico e culturale, pur in un quadro di forte frammentazione politica.

La costruzione del concetto di “straniero” come lo percepiamo oggi è, invece, un fenomeno tutto sommato recente che risale in gran parte alla formazione dei moderni stati nazionali e quindi, nella sostanza, riguarda l’ultimo secolo e mezzo di storia. Con i nuovi Stati nazionali si è costituita un’identificazione ideologica tra Stato, governo, nazione e popolo che non sussisteva in precedenza. Se le vecchie monarchie avevano mano libera per governare secondo logiche in qualche misura private ed “aziendalistiche”, nei nuovi Stati si governa in modo democratico o autoritario ma comunque “in nome” del popolo e della nazione – concetti ai quali è legata naturalmente un’immedesimazione - noi - ed un rigetto - gli altri.

Ed è nel ventesimo secolo, il secolo delle due guerre mondiali, che questa visione nazionalista ed autarchica della vita ha raggiunto il suo apice. Tutti i paesi si sono richiusi al loro interno, in particolar modo per tutti quegli ambiti dove la politica ricopre una funzione prevalente di controllo e di indirizzo. Se l’obiettivo infatti non è semplicemente quello di ottenere tecnicamente dei risultati, ma è anche quello di rispondere alle attese “sindacali” dei cittadini, è evidente che non ci può essere spazio alcuno per gli stranieri, specie quando si tratta di assegnare posizioni che abbiano una qualche appetibilità.

Questo sentimento è particolarmente forte in un paese come l’Italia dove si tiene più al settore pubblico in quanto erogatore di posti di lavoro che in quanto erogatore di servizi efficienti.

Malgrado le opinioni pubbliche abbiano elaborato le esperienze più tragiche del secolo breve allontanandosi rispetto a posizioni di nazionalismo estremo, è tuttora evidente che la nomina di uno straniero ad un ruolo di responsabilità – come, in questo caso, la direzione di un museo - “stona” agli orecchi di molti. Ed al tempo stesso è innegabile che negli ultimi anni, in conseguenza della crisi economica e di alcune dinamiche disfunzionali innescate dall’Unione Europea, si stia rialimentando un clima di sospetto e di sfiducia che può condurre alcuni paesi, tra cui il nostro, verso un nuovo ripiegamento nazionalista.

Per questo sarebbe più che utile ricordare che la globalizzazione, l’integrazione economica e culturale e la concorrenza a livello europeo sul mercato del lavoro non sono un pericoloso snaturamento "turboliberista” dell’Europa tradizionale. Sono, al contrario, la riscoperta dello spirito più vero e più profondo di questo continente, di tutti quei valori che nel corso dei secoli lo hanno reso la parte più prospera e libera del mondo – innovazione, decentralizzazione, intrapresa privata, libertà di movimento, libero scambio. 

Il vero tradimento dell’Europa e della sua straordinaria tradizione culturale e civile è stato quello di coloro che hanno chiuso a chiave i loro paesi e di chi, oggi, continua a fare la guardia alla serratura.