L'Iran e il caso Djalali, la libertà di ricerca e la pena di morte
Diritto e libertà
‘Stiamo facendo tutto il possibile per evitare questa colossale ingiustizia che costituirebbe per il mondo intero un nuovo, gravissimo attentato contro la libertà della ricerca e contro la disseminazione della conoscenza senza barriere, principi imprescindibili per chi svolge la nostra professione. Coraggio, Ahmadreza, vogliamo rivederti a Novara’.
Queste le parole del rettore dell’Università del Piemonte orientale, Cesare Emanuel, che, durante la cerimonia d’apertura dell’anno accademico 2016/2017, ha voluto dedicare un pensiero ad Ahmadreza Djalali, quarantacinquenne medico ricercatore del Crimedim di Novara, da mesi imprigionato in Iran e che rischia l’impiccagione.
Prima del suo arresto, avvenuto a Teheran il 24 aprile 2016, Ahmadreza Djalali svolgeva la sua attività di docente e ricercatore di medicina dei disastri presso prestigiosi istituti di ricerca di diversi Paesi, tra cui la Svezia, dove risiedeva con la sua famiglia, il Belgio e l’Italia. Come testimoniano i suoi colleghi, la sua attività scientifica gode di molti meriti, e riscuote un elevato interesse nella comunità scientifica internazionale. Spesso il suo lavoro lo portava a spostarsi anche in Iran, il suo Paese d’origine, con cui non ha mai tagliato i ponti.
È proprio per lavoro che Ahmadreza si è recato in Iran, su invito dell’Università di Teheran, per tenere un ciclo di seminari. Questa volta, però, il soggiorno iraniano è terminato con il suo arresto. Su di lui pende l’accusa di “collaborazione con governi nemici”, reato che in Iran è punito con l’impiccagione; da quel 24 aprile comincia il calvario.
Dopo aver trascorso i primi tre mesi nel centro di detenzione dell’agenzia di intelligence iraniana, Ahmadreza viene trasferito nel carcere di alta sicurezza Evin di Teheran. In questi mesi di detenzione ha condotto tre scioperi della fame per affermare la propria innocenza. Secondo quanto racconta sua moglie, ha affermato di essere stato sottoposto a duri interrogatori e costretto a firmare dichiarazioni sotto forti pressioni psicologiche.
Oltre la preoccupazione derivante dalle sue condizioni di detenzione e del suo stato fisico e mentale, c’è soprattutto quella che riguarda l’assenza di tutela giudiziaria. Il giudice del tribunale della Rivoluzione, Abolghasem Salavati, il 31 gennaio scorso ha annunciato che sarà emessa per Ahmadreza la condanna a morte e che nella prossima udienza non gli sarà permesso di portare il suo avvocato, ma gliene verrà assegnato d’ufficio un altro.
La famiglia ed i colleghi di Ahmadreza respingono le accuse che gli vengono mosse e affermano con forza che non esiste nessuna prova a suo carico che ne giustifichi la detenzione. A supportarli si sono da subito mobilitate numerose organizzazioni umanitarie, che stanno facendo circolare in rete vari appelli rivolti alle istituzioni iraniane, mentre ha superato già le duecentomila firme la petizione lanciata sul sito Change.org.
Unanime è arrivata anche la condanna della comunità scientifica ed accademica: il rettore dell'università di Bruxelles, Caroline Pauwels, parla di “violazione oltraggiosa dei diritti umani universali, contro la quale dobbiamo reagire con decisione”, mentre i colleghi del Crimedim di Novara ribadiscono, in un appello al presidente Rouhani, che l’unica “colpa” dello studioso arrestato può essere quella di aver collaborato con ricercatori provenienti da numerosi Paesi nel corso della sua attività scientifica, volta a migliorare le capacità operative degli ospedali nei luoghi colpiti da terremoti ed altri disastri.
Queste parole, insieme a quelle pronunciate dal rettore Cesare Emanuel, sono state portate due settimane fa all’ambasciatore della Repubblica islamica dell'Iran a Roma, Jahanbakhsh Mozaffari, durante un incontro con una delegazione di parlamentari italiani, guidata dal presidente della Commissione diritti umani del Senato, Luigi Manconi. Anche il governo svedese ha dichiarato di aver attivato i suoi canali di comunicazione con le autorità iraniane, sottolineando la profonda preoccupazione per le condizioni di salute di Ahmadreza. Su Twitter sono attivi l'hashtag e il profilo #Saveahmad.
Non sembrano però essere giunte risposte dalle autorità iraniane e la situazione resta preoccupante, se si considerano il livello di arbitrarietà nei tribunali della rivoluzione e la facilità con cui presunti oppositori politici vengono condannati a morte, come denunciato dagli attivisti per i diritti umani in Iran. Inoltre, la legge iraniana, non riconoscendo la doppia cittadinanza, non permette ad Ahmadreza di beneficiare dell’assistenza consolare dell’ambasciata svedese a Teheran, complicando così l’intervento del governo svedese.
Esiste, però, sempre uno spazio d’azione in cui la comunità internazionale può e deve intervenire, persino in una situazione complessa come questa. Proprio nella consapevolezza del fatto che le pressioni internazionali restano l’unica strada percorribile, la scorsa settimana è partito un appello promosso dalla Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo e dall’Associazione Iran Human Rights, che, rivolgendosi ai governi italiano, svedese, belga e all’Alto Rappresentante Ue Federica Mogherini, mira a sollecitare azioni di pressione internazionale sulle istituzioni iraniane, affinché si faccia luce sulla detenzione arbitraria di Ahmadreza Djalali, sempre in nome del rispetto dei diritti fondamentali di cui l’Europa si fa orgogliosamente promotrice.
Lo spazio di azione per un intervento internazionale che impedisca il compiersi di un’ingiustizia che porta con sé una serie di violazioni dei diritti e delle libertà fondamentali è l’unica forza di cui disponiamo e, in questo caso, uno spiraglio forse si apre. Se è vero che questo è un periodo in cui i rischi di una caccia alle streghe politica in Iran si intensificano, a causa delle vicine elezioni presidenziali, è anche vero che la volontà da parte del governo iraniano di ristabilire i rapporti commerciali con l’Unione Europea è sempre presente e rappresenta proprio il punto sul quale insistere per far tornare Ahmadreza Djalali dalla sua famiglia, libero di continuare la sua attività scientifica.