Moratoria sulla pena di morte, in Africa qualcosa si muove
Diritto e libertà
Tra meno di un mese, la risoluzione per una moratoria universale sull’applicazione della pena di morte tornerà al voto dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite.
Era il 1994 quando, per la prima volta nella storia, in seguito alle pressioni istituzionali esercitate da Nessuno Tocchi Caino e dal Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito, venne presentata in sede Onu una richiesta per una moratoria delle esecuzioni. Quell’anno, però, la risoluzione non fu adottata per soli otto voti
Seguì una campagna internazionale fatta di lotta politica nonviolenta, azioni di advocacy e convegni, tra cui la prima conferenza sulla pena di morte nelle legislazioni dei Paesi arabi, a Tunisi, e l’appello Nessuno Tocchi Saddam in cui politici, intellettuali e premi Nobel di tutto il mondo si unirono nella richiesta di un processo, nei confronti del deposto dittatore dell’Iraq, giusto ed imparziale, secondo i principi dei tribunali internazionali, i quali escludono il ricorso alla pena di morte.
Altri due tentativi fallirono, nel 1999 e nel 2003, prima della grande vittoria nel dicembre del 2007, quando l’Assemblea generale dell’ONU adottò, su iniziativa dell’Italia e dell’UE, la risoluzione n. 62/149, Moratoria sull’uso della pena di morte, chiedendo agli Stati membri di stabilire, appunto, una moratoria delle esecuzioni come passaggio intermedio che costituisse un momento di riflessione prima del passo finale: l’abolizione definitiva. Un’analoga risoluzione (n. 63/168) fu approvata nel 2008; dal 2010 la moratoria viene discussa e messa al voto dell’Assemblea generale dell’Onu ogni due anni e, ad ogni votazione, un numero sempre crescente di Paesi si pronuncia in suo favore.
Nel mondo arabo, la conferma di un’apertura viene proprio dalla Tunisia. Dopo sette anni dalla prima lungimirante iniziativa di dialogo, arriva il primo voto favorevole nel 2012; voto che verrà confermato anche nel 2014.
Lo scenario, indubbiamente positivo, che avvolge la causa abolizionista non può, quindi, non tenere conto del ruolo da protagonista che sta svolgendo, negli ultimi anni, il continente africano. Gli sforzi e la sensibilità di molti Paesi, appartenenti sia all’Africa settentrionale sia a quella subsahariana, rispetto all’abolizione della pena capitale, hanno creato le condizioni affinché si sviluppasse un importante movimento abolizionista, che necessita del sostegno della comunità internazionale.
Proprio con quest’obiettivo, il mese scorso mi sono recata in quattro Paesi africani, Kenya, Zambia, Malawi e Swaziland, come membro della delegazione di Nessuno Tocchi Caino guidata da Antonio Stango, neo-eletto Presidente della Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo. La missione, che ha goduto del supporto della Farnesina, ci ha permesso di porre le basi per un dialogo costruttivo con i leader politici, nonché con influenti personalità della società civile di Paesi che, da diversi anni, osservano una moratoria di fatto, ma che, per ragioni per lo più legate a motivi di consenso nell’opinione pubblica, si sono fino ad ora astenuti o hanno preferito non partecipare al voto in plenaria.
Aver visto da vicino le problematiche sociali e politiche in cui versano questi Paesi ci ha permesso di fare luce sulle motivazioni che ostacolano il raggiungimento della moratoria e, soprattutto, di intervenire, dando supporto e speranza a quella rete di forze abolizioniste costituita da politici, religiosi, giuristi e Ong locali che si battono per la difesa di persone che, anche se non rischiano di essere giustiziate, vivono comunque sotto il peso inumano della condanna a morte. È proprio qui che si inserisce il ruolo fondamentale della risoluzione per una moratoria delle esecuzioni.
Ad esempio, un Paese che osserva una moratoria di fatto, quindi decide di non condurre al patibolo i suoi condannati, deve comunque fare i conti con la tortura fisica e psicologica a cui sono sottoposte quelle persone che sopravvivono con lo status di condannato a morte, nella speranza che, un giorno, la loro pena sia commutata in un periodo di detenzione e – salvo casi eccezionali – possa portare a un processo di riabilitazione e di reinserimento nella società. In questo caso, la risoluzione delle Nazioni Unite offre sì una possibilità di riflessione e di dibattito sul tema della pena capitale, ma anche sul concetto penale stesso; sul diritto alla vita, così come affermato nelle varie convenzioni internazionali, ma anche sulla funzione rieducativa, piuttosto che intimidatoria, della pena. Attraverso il voto in favore, uno Stato si espone con la comunità internazionale, ufficializzando la moratoria di fatto che già applica al suo interno, e aprendosi così ad una nuova fase, che sarà di preparazione alla fase finale, l’eliminazione della pena capitale nell’ordinamento giuridico interno.
Come accennato, l’argomentazione più comunemente utilizzata per giustificare l’astensione al voto è il timore di trovarsi con un’opinione pubblica contraria a quella scelta. Questo atteggiamento è spesso dettato dalla carenza di informazioni circa le conseguenze della risoluzione sul sistema giuridico interno ma, a volte, anche dall’isolamento del Paese nel panorama internazionale.
Ora più che mai, in un momento storico in cui osserviamo una tendenza ad agire violando i diritti umani nel nome della lotta al terrorismo, impegnarsi per rafforzare ed allargare la rete abolizionista mondiale diventa non solo una necessità, ma un preciso dovere, per fermare la deriva autoritaria di determinati Paesi e per vincere la battaglia contro il boia.
Dei quattro Paesi meta della nostra missione, Malawi e Swaziland hanno già compiuto un passo in avanti, con il loro primo voto favorevole alla risoluzione, lo scorso 17 novembre, in sede di Terzo comitato (sui diritti umani) dell’Assemblea generale dell’Onu. Ora non ci resta che attendere il voto in plenaria e sperare di poter accogliere quante più nuove forze abolizioniste possibili, con la consapevolezza di aver compiuto insieme un altro passo verso l’affermazione di un nuovo diritto della persona, quello che tutela la vita, soprattutto quando questa è messa in pericolo dallo Stato.