I ballottaggi? Un test per il referendum
Diritto e libertà
Come noto, domenica prossima avremo il turno di ballottaggio di questa tornata di elezioni amministrative, con l’atteso esito delle sfide più avvincenti: Roma, Milano, Napoli, Torino e Bologna. Questo appuntamento elettorale comporta di per sé un significato politico di più ampio respiro, per l’evidente ruolo di termometro politico nazionale che svolgono le principali città italiane.
Ma ciò è ancor più vero per questo specifico turno di ballottaggio, poiché il concreto comportamento dell’elettorato potrà fornire utili indicazioni per il prossimo referendum confermativo di ottobre.
In particolare, sarà interessante osservare se al turno di ballottaggio vi sarà una coagulazione del voto delle diverse opposizioni in funzione antigovernativa ed eventualmente verificarne il grado di diffusione per stabilire se tale esito sia riconducibile a fattori esclusivamente locali (ad esempio, Mafia Capitale a Roma) o sia invece espressione di una tendenza generale.
Infatti, l’esito del primo turno - di cui, come consueto, sono state date molteplici analisi, in grado di soddisfare i gusti politici di qualsiasi elettore - sembra indicare che, se anche il PD riesce a mantenere il primato di primo partito del Paese, il suo consenso potrebbe essere inferiore alla mera sommatoria delle forze di opposizione.
Ciò potrebbe significare poco nell’ipotesi in cui la diversità di offerta politica o di orientamento strategico delle opposizioni (ad esempio, è noto che il M5S non faccia alleanze o apparentamenti elettorali) costituisca un ostacolo divisivo insuperabile; mentre potrebbe significare molto se invece, malgrado il gioco delle parti, vi fosse una concordanza di intenti, più o meno auspicata e/o indotta, dei rispettivi elettorati di riferimento.
In altri termini, l’elemento informativo di maggiore interesse di questo turno elettorale sembra essere quello di appurare se il dissenso per l’Esecutivo, e, soprattutto, per il suo ambizioso Presidente possa costituire un forte fattore coagulante per le forze di opposizione, che potrebbe rappresentare un fattore decisivo della sfida referendaria, la quale, come sembra stia accadendo nel Regno Unito, rischia di divenire un boomerang per il capo del governo, a testimonianza che l’uso del referendum in funzione di consolidamento governativo (o, se si preferisce, di plebiscito) è sempre assai pericoloso.
D’altronde, si può prevedere che, se si registrasse una concordanza delle opposizioni in occasione di un voto amministrativo che ha immediati e diretti riflessi nella vita quotidiana degli elettori, ciò potrebbe con molta probabilità ripetersi per l’appuntamento referendario, trattandosi di un voto su un tema che certamente l’elettore medio può percepire, a torto o a ragione, meno condizionante e/o più distante rispetto alla sua esperienza di vita e costituire quindi l’occasione più congeniale per esprimere un voto di protesta antigovernativo, soprattutto se diverrà prevalente, se non esclusivo, il valore simbolicamente plebiscitario del voto.
Si è convinti, infatti, che, malgrado gli sforzi di tanta parte della dottrina e gli inviti di autorevoli esponenti istituzionali alla focalizzazione della discussione pubblica referendaria sui temi della riforma, la scelta dell’elettore sarà quasi esclusivamente determinata dall’adesione o meno al plebiscito sul Presidente del Consiglio.
Se così sarà, come tutto oggi sembra far credere, il voto di domenica prossima potrebbe diventare la prova generale per il De Profundis del (primo) renzismo.