velaticappatogrande

Il caso di Dominique Velati, militante radicale e malata terminale che la settimana scorsa ha ottenuto il suicidio assistito in Svizzera, ha riaperto – come periodicamente accade – il dibattito sul diritto all’eutanasia e, più generalmente, sul fine vita. Ormai ridotto, purtroppo, a uno stagionale e vacuo interludio tra questioni ritenute, non solo dal legislatore, più serie, più cogenti, più urgenti.

In teoria siamo tutti d’accordo sul fatto che la questione vada affrontata, in pratica non la affrontiamo mai. Forse perchè il comportamento di tutti i principali attori in gioco concorre, in qualche modo, a evitare un confronto decisivo nelle sedi istituzionali. Diciamocelo: c’è chi parte dal presupposto (incrollabile retaggio di un modo di pensare tipicamente italiano), che tanto – se proprio vuole – uno possa ammazzarsi da solo. Quindi, tutto sommato, meglio aspettare. C’è poi chi teme che il dibattito si radicalizzerebbe al punto da impedire una soluzione ampiamente condivisa, magari trascinando lo scontro anche oltre i confini propri della questione. Quindi, tutto sommato, meglio aspettare.

Infine c’è chi, sulla spettacolarizzazione di quello che è e resta un terribile dramma umano, cerca di recuperare (anche personalmente) una visibilità politica perduta. E dato che finché il problema resta, resta pure la possibilità di agitarlo, tutto sommato meglio lasciare le cose come sono: se possibile alzando il prezzo, il livello della polemica, così da rendere il prodotto mediaticamente più appetibile. Ma non è certamente chiudendo gli occhi – sia per pigrizia o per eccesso di prudenza – né organizzando tour eutanasici in giro per l’Europa che arriveremo a una soluzione.

Occorre piuttosto un sano realismo e con esso soprattutto dei percorsi, anche parlamentari, realistici. Non sarebbe cioè sbagliato ragionare, una buona volta, per tappe. Fissando quantomeno un livello minimo di intervento e tempi certi per la sua adozione. Smetterla, insomma, di non affrontare il presente per il timore di veder ipotecato il futuro (il che vale sia in chiave estensiva che restrittiva).

Chi scrive è favorevole al riconoscimento di un pieno diritto all’eutanasia e vede, in questo, un traguardo naturale cui nel tempo ragionevolmente potremo pervenire. Tuttavia, anche per preparare il terreno a una trasformazione radicale non solo da un punto di vista strettamente giuridico, sarebbe opportuno individuare da subito un livello iniziale di riconoscimento delle istanze legate al fine vita. Istanze il cui livello di diffusione e condivisione pare ben più alto di quanto la politica abbia voluto o saputo stimare in questi anni.

Il punto è che a questa riforma è tenuto il livello centrale. O quantomeno esso si ritiene tale, con ciò peraltro assumendosi una maggior responsabilità. Di fronte all’iniziativa legislativa del Friuli Venezia Giulia, che lo scorso marzo ha licenziato un provvedimento (L.R. n.4/2015) con cui si prevedeva l'istituzione - appunto presso le ASL regionali - di un registro per le libere dichiarazioni anticipate di trattamento sanitario (DAT), lo Stato si è infatti opposto rivendicando la propria unica competenza a legiferare in materia di fine vita.

“La legge in oggetto - ha osservato il Consiglio dei Ministri - invade la competenza esclusiva dello Stato sia in materia di ordinamento civile di cui all’art. 117 secondo comma della Costituzione, sia in materia di tutela della salute, i cui principi fondamentali sono riservati alla legislazione statale ai sensi dell’art. 117 terzo comma”. Tuttavia, proprio ribadendo di avere una competenza esclusiva, quello stesso Stato ha in qualche modo sottolineato la propria inottemperanza: così rendendo, se possibile, più significativa la stessa, e consolidando una preoccupante frattura tra le istituzioni ed il cosiddetto paese reale.

Parlo di frattura perché sempre di meno i cittadini colgono le sfumature delle diverse attribuzioni e competenze dei livelli di governo. Essi guardano alla pubblica amministrazione come ad un magma indistinto e non infrequentemente ostile: a cui chiedono e da cui attendono riscontri concreti, ricevendo in risposta quelle che – a torto o a ragione – ai più sembrano astrazioni. Per la puntualità e coerenza giuridica delle quali, peraltro, non nutrono interesse. La cogenza dei problemi che queste persone affrontano, la sofferenza propria o quella di un prossimo congiunto, la solitudine e l’impotenza di fronte a certi drammi personali, fanno sì che il loro unico interlocutore (per così dire) percepito sia, appunto, “la politica”; e che da essa si sentano traditi, o perlomeno trascurati.

Quello del fine vita è un tema trasversale, pratico: talmente pratico da annullare ogni appartenenza ideologica e in ultimo, probabilmente, anche confessionale. Per questo serve una risposta altrettanto pratica e pragmatica.

La pendenza della “questione Friuli”, nell’attesa che la Consulta sciolga il nodo giudiziario, mette ancor di più la parte politica di fronte alla necessità di attendere al proprio ruolo: che è appunto politico, ovvero di assunzione di una scelta. Il contenuto della legge regionale impugnata non contiene nulla che non sia di buonsenso, prevedendo in buona sostanza: 1. l’istituzione presso ogni regione del registro per le libere dichiarazioni anticipate di trattamento sanitario (DAT), altresì dettando disposizioni idonee a favorire la raccolta delle volontà di donazione degli organi e dei tessuti (rispondendo, in tal modo, all’esigenza di supportare l’attuazione, ad oggi solo parziale e frammentaria, della legge 1 aprile 1999, n. 91 che disciplina la donazioni di organi e tessuti); 2. il deposito delle predette DAT presso le Aziende sanitarie e la conservazione nella tessera Sanitaria: questo allo scopo di utilizzare strumenti e strutture già presenti su tutto il territorio, ma anche per rendere facilmente accessibile le volontà del paziente agli aventi diritto. Così consentendo agli interessati, in altre parole, di decidere se essere o meno sottoposti a trattamenti sanitari «in caso di malattia o lesioni che comportino una perdita di coscienza permanente e irreversibile secondo i protocolli scientifici a livello internazionale».

Nella maggior parte dei paesi europei le cose funzionano così già da tempo, spesso anche spingendosi oltre questo livello minimo di intervento.
La speranza è dunque che lo stato faccia proprio questo schema, e si tolga quanto prima da questa scomoda condizione di inerzia. Non significherà aver aperto la porta all’eutanasia, come pensa qualcuno; semmai significherà non averla chiusa in faccia a milioni di persone che chiedono di poter decidere per la propria vita. E non per sopprimerla, beninteso, quanto per salvaguardarne uno dei valori più intimi: la dignità.

Quella sull’eutanasia presto o tardi inevitabilmente ci sarà, si giocherà, ma sarà un’altra partita, profondamente diversa. Il fatto stesso di aver compiuto un primo fondamentale passo verso il riconoscimento della libertà individuale in materia renderà con ogni probabilità anche più maturo l’esercizio della medesima, e con esso pure un dibattito che a quel punto sarà più informato e quindi – si spera – anche più fecondo.

Restare fermi non farà altro che alimentare lo scenario osservato in partenza: tantissime persone lasciate sole di fronte alla propria ed altrui non autosufficienza, e sempre più pullman che partono verso la Svizzera in un misto di indignazione, rabbia, opportunismo e ipocrisia.
Cioè le quattro colonne di una storica retorica sull’inconcludenza italiana, che proprio questo governo sta finalmente provando ad abbattere.
Bisogna continuare l’opera anche su questo terreno, per quanto scomodo e difficile sia stato e sia ancora.

@SeanHMallory