Fa fatica a placarsi la polemica sulla sentenza della Corte Costituzionale sul blocco dell'indicizzazione delle pensioni. L'argomento più utilizzato dai supporters della restituzione in toto delle somme contese è quello secondo il quale il Governo Monti avrebbe "derubato" i pensionati, mentre argomentazioni dalle sfumature ancora più bizzarre sono assunte dalla destra di Salvini e il gruppo eterogeno dei critici della moneta unica, secondo i quali le pensioni sono state un ladrocinio ben più grave, poiché le politiche di Monti non sarebbero state necessarie e anzi si sono dimostrate disastrose. Sull'efficacia delle politiche del governo tecnico la si può pensare come si vuole, soprattutto se si considera che chi lo votò diede il suo appoggio solo a manovre fiscali e riforma pensionistica, mentre sulla parte di agenda più propriamente riformista i risultati furono inesistenti, ma negare l'evidenza che citrovassimo in un momento potenzialmente disastroso per il nostro paese è un esercizio di amore per la fantasia piuttosto grave, dal momento che i fatti so sono svolti l'altro ieri e non secoli fa.

mariomonti

Cerchiamo di comprendere le cause dell'impennata degli spread, utilizzando l'arma più appropriata: la statistica applicata all'economia. In un recente studio della Banca Centrale Europea, "The determinants of sovereign bond yield spreads in the EMU", i ricercatori Alfonso, Arghyrou e Kontonikas trattano nuovamente e con dati più ricchi l'annoso tema dei rischi sui tassi del debito pubblico dei paesi della zona Euro, negli anni travagliati che hanno quasi visto collassare la moneta unica.

Lo studio è molto interessante, poiché cerca di decomporre l'analisi dei fattori determinanti del rischio del debito sovrano in diversi lassi temporali, ovvero gli autori sono interessati a identificare break strutturali di breve e lungo periodo nelle variabili incorporate nei prezzi degli spread. Il primo periodo, che va dal 1999 al 2007, è quello precedente alla crisi, il secondo corrisponde alla fase iniziale della crisi finanziaria globale, dal 2007 alla metà del 2009, mentre il terzo copre più specificamente il periodo di crisi della Zona Euro, dalla seconda metà del 2009 fino alla fine del 2010.

Come è noto dalla letterature teorica ed empirica, le determinanti principali con cui il rischio di debito pubblico è prezzato sono legate fondamentalmente a tre fattori. Il primo è un fattore internazionale di rischio percepito, che è indipendente dai fondamentali di ogni paese: ceteris paribus, un aumento del rischio percepito a livello globale tende ad aumentare il rischio relativo di default del debito pubblico, e dunque gli spread. Il secondo è un fattore di rischio di credito, ovvero la probabilità attesa che il debitore pubblico in difficoltà finanziarie non paghi, in tutto o in parte, il proprio debito. Il terzo fattore è legato al rischio di liquidità, ovvero alla condizione per cui nel mercato per i titoli pubblici la liquidità si prosciughi completamente, e che piccole variazioni nelle quantità offerte si riflettano in grandi balzi di prezzo. È la condizione in cui si trovarono alcuni PIGS nella fase più acuta della crisi.

Qual è il peso specifico di queste tre elementi nei tre periodi sopra menzionati? Secondo gli autori, che portano evidenze empiriche piuttosto robuste, i tre fattori giocano un ruolo diverso in ciascuno degli intervalli temporali considerati.

In dettaglio, i risultati empirici mostrano come la percezione del rischio internazionale (flight-to-safety) ha avuto un contributo positivo nell'aumentare gli spread soltanto nella prima fase della crisi finanziaria, dal 2007 fino al 2009, per poi diventare del tutto non significativo. Il fattore fiscale, ovvero le aspettative di un peggioramento dei saldi primari futuri, è significativo e con il segno atteso sin dal 1999: una diminuzione attesa nei surplus fiscali è associata a un aumento sensibile dello spread, e l'effetto è due volte più forte a partire dalla seconda metà del 2009. Che la situazione abbia iniziato a incancrenirsi proprio allora è confermato dal coefficiente della variabile di stock atteso del debito pubblico. I mercati da metà 2009 hanno iniziato a prezzare i titoli pubblici con un rischio di premio associato direttamente alla grandezza del debito pubblico atteso, così come scritto in ogni libro di testo che si rispetti: se le finanze pubbliche sono in peggioramento, e il mercato si aspetta che lo siano anche in futuro, gli interessi da pagare sui titoli incorporano un premio per il maggior rischio. Lo studio rileva come il meccanismo all'opera, in paesi come Spagna, Irlanda, Grecia sia stato quello di un travaso del debito privato oramai compromesso ed esistente nei bilanci delle banche, nel debito pubblico, sotto forma o di garanzie implicite o di veri e propri bail-out, cosa puntualmente accaduta.

A questo si aggiunge il chiaro effetto contagio, che dal 2009 sembra essere il driver più importante. Da quella data, infatti, la covarianza fra i rendimenti dei paesi periferici ha iniziato a essere molto alta, a distaccarsi sempre più dai movimenti dei rendimenti dei paesi core. La probabilità implicita di un collasso dell'intero sistema della zona Euro era dunque prezzata negli spread. In ultimo, il fattore liquidità ha avuto un ruolo solo nella fase finale, quando oramai la mancanza di fiducia ha "prosciugato" la liquidità residua per i paesi che poi hanno, a tutti gli effetti, avuto bisogno di un salvataggio.

I risultati empirici indicano che i fattori determinanti degli spread nell'area dell'euro sono cambiati nel corso del tempo e i cambiamenti nella sensibilità dei prezzi delle obbligazioni ai fondamentali sono rilevanti anche per spiegare i rendimenti durante il periodo di crisi. Più in particolare, nel periodo pre-crisi i fondamentali fiscali sono generalmente significativi nello spiegare spread, ma non con la forza con la quale i mercati hanno iniziato a prezzarli dal 2009 in avanti. Questo "mispricing" del rischio, sebbene di difficile definizione teorica data la difficoltà di paragonare outcome reali con altri solo supposti (cd controfattuale), è forse stato facilitato dalla mancata percezione di garanzie pubbliche implicite sui debiti privati: una volta che il bubbone è scoppiato, e che il debito privato in Irlanda, Spagna e Grecia, è diventato pubblico, i mercati si sono accorti che la situazione non era quella immaginata, che la crisi si sarebbe abbattuta sulle finanze pubbliche, dopo aver falcidiato i bilanci privati, e i prezzi del debito pubblico hanno iniziato a avvitarsi in una spirale pericolosa che ha quasi affossato la moneta unica. Per il nostro paese, invece, la situazione appare diversa: non esiste evidenza di una bolla edilizia paragonabile a quella Spagnola o Irlandese. Il boom del credito nel nostro paese non ha lasciato effetti nemmeno nella crescita del PIL, anemica, laddove gli altri PIGS hanno di certo beneficiato di un boom dei consumi, poi pagato caro.

È da queste constatazioni che bisognerebbe partire per riesaminare quel periodo. Ogni narrativa complottista, o moralista, da qualsiasi parte essa venga, risponde più alle logiche dello scontro politico, che a un'attenta analisi dei fatti. Lasciare intendere che il Governo Monti ha scientemente affossato l'Italia, che lo spread era un pretesto o, peggio, un'invenzione, che il debito pubblico italiano fosse assolutamente a prova di bomba, che le nostre responsabilità non esistono, che le pensioni sono state tagliate senza considerare la sofferenza della gente più bisognosa, è il solito modo per lavarsi la coscienza e non affrontare con lucidità i problemi che attanagliano l'Italia.

La verità è siamo entrati nella Grande Recessione con un debito pubblico già enorme, rispetto al nostro PIL, rachitico nella crescita. Se avessimo avuto il livello di debito francese il nostro spread non sarebbe schizzato in alto, anche a causa dei timori di contagio. A differenza degli altri stati citati il nostro debito era semplicemente troppo alto, la dinamica delle spese troppo elevata rispetto non tanto ai livelli di crescita passati, ma quanto a quelli attesi ben più negativi, e che i mercati già scontavano.

Chi pensa che fosse plausibile in quel momento salvare la zona euro attraverso politiche espansive semplicemente si sbaglia di grosso. È surreale pensare che Monti potesse presentarsi in Parlamento, dopo che il governo Berlusconi era imploso da solo - incapace di gestire la crisi per evidenti limiti - annunciando: "per piegare lo spread aumenteremo le spese del 20%". Coloro che puntano il dito solo e soltanto contro la Germania, la BCE e il FMI, "trimurti neoliberista", sono il sottoprodotto - ahinoi - di una crisi gravissima, che ha certamente distrutto reddito, lavoro, e peggiorato la vita di tanti cittadini. E non è con con le teorie romanzate che si affrontano i problemi strutturali della zona Euro in generale, e dell'Italia in particolare.