Taylor Swift e l’italianesco: due risposte a Michele Serra
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Nel penultimo numero della newsletter che cura per Il Post Michele Serra si è interrogato e interroga il lettore sulle ragioni del successo parossistico della collezionista di primati Taylor Swift – da ultimo prima artista della storia a guadagnare la nomina di “persona dell’anno” sul Time, protagonista di un tour conclusosi contabilizzando il maggior incasso della storia per un tour, incoronata regina incontrastata dello streaming da Spotify e dei passaggi radiofonici da Billboard e via primeggiando. Serra chiude il pezzo ammettendo di non esser riuscito darsi una risposta convincente.
Le ragioni della Taylormania sono in parte insondabili e misteriose come le ragioni di qualunque fenomeno “non equazionabile” e in parte verranno fuori col tempo – e sarà un lavoro faticoso quello di individuarle in mezzo a tanto sociologismo d'accatto messo nero su bianco, in questi giorni, dai turisti della pop culture e nella fattispecie della pop culture a stelle e strisce che affollano i giornali; in parte, infine, le ragioni meno insondabili della Taylormania possono timidamente essere ipotizzate.
«Perché proprio lei?» si chiede dunque Serra, che trova in Swift un’interprete non della mediocrità ma comunque della medietà, una superstar un po’ stereotipata e dunque non inconfondibile.
Anzitutto tanta introspezione e tanta elaborazione del vissuto e dell’osservato e tanto talento nella liricizzazione di quel che dall'introspezione e dall'elaborazione viene fuori sono la chiave per avere accesso a un linguaggio universale. Sul Time Sam Lansky introduce la sua lunga intervista alla persona dell’anno riconoscendole «a preternatural skill for finding the story», un’abilità soprannaturale nell’individuare «la storia», intesa come essenza narrativa dello svolgersi degli eventi – si tratti dello svolgersi degli eventi interiori, di episodi oggettivamente o soggettivamente memorabili, di trame shakespeariane (a Swift piace classicheggiare) o drammi famigliari consumatisi nella casa dei vicini quando aveva sette anni. Diversi college statunintensi hanno istituito corsi a lei dedicati, Harvard incluso – la professoressa Stephanie Burt ha detto a Lansky di avere l’intenzione di comparare i testi di TS con le poesie di William Wordsworth.
Prolificità e continuità, fondamentali in questa contemporaneità presentista che consuma tutto voracemente e in fretta declassando a meteore anche le stelle più voluminose, fanno tutto il resto. unitamente alla miracolosa capacità di spostare chissà dove una soglia di saturazione mediatica che di questi tempi è in genere bassissima. Serra, dal canto suo, ammette di faticare a riconoscere ai testi di TS un qualche valore letterario ed esprime perplessità sui college di cui sopra.
Poi ci sono, e siamo ai due fattori probabilmente più dirimenti della Taylormania, la multidimensionalità e l'eccellenza simultanea in ogni dimensione nella quale Swift agisce – quella cantautorale potremmo dunque definirla la dimensione-base, le fondamenta solidissime al di sopra delle quali è stata edificata la grandiosità del fenomeno TS, grandiosità tale da esser perfino rilevata dai sismografi dislocati nei pressi degli stadi in cui si è esibita e dalla Federal Reserve nella misurazione dell’impatto dei suoi spettacoli sul Pil degli Stati in cui il suo tour ha fatto tappa. A tal proposito, si sono espresse come meglio non avrebbero potuto Phoebe Bridgers e Greta Gerwin, opportunamente interpellate dal TIme: «Taylor Swift is like a whole room of writers as one person, with that voice and charisma. She’s everything at once»; «Taylor Swift is Bruce Springsteen meets Loretta Lynn meets Bob Dylan».
Tutto questo può parzialissimamente spiegare le ragioni dell’unicità di Taylor Swift: si tratta di razionalizzazioni logicamente coerenti ma inevitabilmente superficiali, perché le ragioni più profonde – lo si ribadisca a beneficio di Michele Serra, autenticamente interessato a comprendere il fenomeno – sono e resteranno perlopiù inconoscibili, come le ragioni più profonde del carisma inteso in senso weberiano e del carisma dell’anticarisma che connota alcune specifiche forme di leadership (TS, essendo americanamente una self-made goddess e, a al contempo, una ragazza un po’ curva troppo alta e fisicamente e mimicamente a volte un po’ goffa e scomposta nelle sue manifestazioni emotive, ecco, TS è una potente miscela di ambedue le cose); del resto se nella dimensione individuale sono sempre inconoscibili le ragioni più profonde per le quali ci si è innamorati di quella persona, proprio di quella persona, quanta presunzione ci vuole per ritenere possibile spiegare esaustivamente un innamoramento di massa?
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Sempre Michele Serra e sempre su Il Post ha recentemente firmato un lungo pezzo nel quale boccia – si perdoni la sintesi brutale – la degenerazione dell’italiano a “italianesco”, un ibrido di lingua nazionale e lingue locali. È curioso che questa riflessione sia stata innescata dall'inflessione marcatamente romanesca di Meloni, erede o comunque pro-pronipote ideologica del primo e unico autore di una politica linguistica ferocemente purista e antidialettalistica.
Nella valanga di risposte anche piccate ricevute Serra ha sperimentato la portata di un fenomeno sottovalutato: la sacralizzazione dei dialetti – sollevare perplessità circa l'abuso che se ne fa nelle aree periferiche e rurali e nei consumi culturali espone a gragnole d'insulti assai più che scriver male di un club calcistico o di un leader politico (citofonare Elena Stancanelli).
In parecchi rispondendogli hanno parlato di fisiologici effetti della diglossia – in realtà quella vigente in Italia è una dilalia, dilalia nella quale il sistema linguistico non-prestigioso è fatto di pochissimi dialetti e moltissimi vernacoli: non esiste più, per esempio, “il siciliano”, se non quello creato in vitro da Camilleri, esistono decine di vernacoli siciliani assai eterogenei. Ad ogni modo che vi sia una contaminazione “dal basso” dell'italiano istituzionale e più generalmente pubblico come denuncia Serra è evidente, come lo è – quantomeno agli occhi di chi scrive – che da qualche lustro sia attecchito un sorta di feticismo localistico/pasoliniano per dialetti e sub-dialetti, con la complicità della tv (ieri infrastruttura fondamentale per l'omogeneizzazione linguistica del Paese, oggi orgogliosa mamma di Gomorra Suburra Montalbano) e della popolanizzazione – malattia senile della democratizzazione – delle istituzioni politiche e culturali.