Smettiamola coi dialetti
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Il battibecco tra alcuni militanti di CasaPound e un adolescente di Torre Maura ha innescato polemiche di natura politica – com'era ovvio: il teenager antifascista è di per sé predisposto alla "viralità", e a ragione – e anche, questo è l'elemento di novità, di natura extrapolitica, nella fattispecie "linguistica".
Sul piano per così dire "psico-politico", non si può fare a meno di notare che se da un lato si assiste all'infantilizzazione del discorso pubblico-istituzionale, e cioè degli adulti – il "Capitano", lo "spazzacorrotti", il pane con la Nutella ecc –, dall'altro si assiste a una forma di "adultizzazione" di alcuni adolescenti, che si occupano di cambiamento climatico e si spendono coraggiosamente in prima persona per defilarsi dalle strumentalizzazioni.
Così la figura dell'adolescente "impegnato" si sta emancipando dal vetero-marxismo e dal sessantottismo da assemblea di istituto per interessarsi a tematiche meno "rodate" ma più attuali (se vogliamo più liberal, "post-materialiste") come il cambiamento climatico e un anti-sovranismo pragmatico, privo di orpelli e automatismi ideologici.
La scrittrice Elena Stancanelli ha voluto sottolineare, in un tweet, quanto sia preoccupante che un quindicenne si esprima perlopiù in romanesco – abusando di espressioni tipiche come "nun me sta bene che no", già diventata uno slogan – piuttosto che in italiano, pur condividendo l'entusiasmo per il coraggio e il buonsenso del suddetto quindicenne; per tutta risposta, è stata sottoposta a una shitstorm per tutta la durata del fine settimana.
Si tratta della tipica cyber-aggressione – il branco contro uno – che perciò prescinde, nelle modalità e soprattutto per la radicalità con in cui si è svolta, dal tema in sé: gli oltranzisti del dialetto (nonché quelli dell'antifascismo "legittimante" l'uso di qualunque forma espressiva e i militanti di sinistra-sinistra o che le hanno immancabilmente dato della pariolina) saranno stati, al più, i capifila; per il resto si è trattato dei soliti utenti-gregari che esorcizzano la noia e la mediocrità arruolandosi quali comparse digitali nella folla manzoniana del giorno.
Ciononostante, il tema è quanto mai attuale: i dialetti sono onnipresenti, tanto nella quotidianità quanto, soprattutto, nei consumi culturali di massa (i varietà, da Zelig a Made in Sud; le serie tv, da Gomorra a Suburra), nonché, va da sé, nella letteratura moderna e contemporanea (Pasolini, per l'appunto, Gadda, Camilleri ecc).
Il romanesco, in particolare, è di per sé iper-espressivo, perciò come pochi altri dialetti – fra cui quello siciliano e quello fiorentino, il secondo, com'è noto, padre della lingua italiana… non senza l'influenza del primo – è assai teatrale, nonché telegenico. Squalificarne l'utilizzo come prova di analfabetismo è, beninteso, sbagliato, ma la retorica da Pro Loco sui dialetti e sull'improrogabile esigenza di valorizzarli, per di più in un Paese in cui si fatica a padroneggiare la lingua ufficiale e in cui, specie nelle zone periferiche e rurali, se ne fa un abuso (con quanto di penalizzante per la dizione e per la conoscenza dell'italiano ne consegue) è quanto di peggio il conformismo pasoliniano potesse partorire.
La tv che, insieme alla radio, ebbe un ruolo fondamentale nell'omogeneizzazione linguistica del Paese, sembra abbia – se non certamente invertito la rotta – quantomeno preso in considerazione e nobilitato quegli stessi dialetti che era riuscita a estromettere dal discorso pubblico: lo stato delle cose linguistiche ci ricorda quotidianamente che tanto la rivoluzione risorgimentale quanto la controrivoluzione fascista, e cioè i due momenti-chiave dell'unificazione nazionale, furono "eventi top-down", imposti dall'alto – mentre tanto l'idea dello Stato-nazione quanto, a maggior ragione, una lingua nascono perlopiù dal basso.
La politica linguistica mussoliniana, nella fattispecie, fu "nazional-purista" e dunque antidialettalistica (nonché, va da sé, xenofoba sino al ridicolo con l'italianizzazione coatta dei forestierismi – che se ci ha dato l'elegante e dannunziano "tramezzino" al posto di sandwich, ha provato a darci anche "quisibeve" al posto di "bar"): al di là dei citati eccessi si trattò di un "costruttivismo linguistico" soft finalizzato non a inventare tout court una lingua ma a ufficializzarla e diffonderla – da Dante, col suo De Vulgari Eloquentia, fino a Manzoni, passando per Pietro Bembo "la questione della lingua" aveva destato polemiche fra gli intellettuali di ogni secolo, Mussolini tentò di chiuderla nell'unico modo che conosceva, cioè manu militari (una cosa buona?).
Perché, dunque, ri-nobilitare i dialetti – persino elevandoli a lingue –, elogiarli e addirittura "istituzionalizzarli" dopo tanta fatica? Pasolini temeva, come i francofortesi, l'omologazione "borghese", perciò era per la conservazione delle classi sociali – unica struttura che garantisse una forma di diversificazione umana – e soprattutto dei sottoproletari e dei loro idiomi, diversi da provincia a provincia, talvolta da paesino a paesino; oggi come allora questa forma di reazionarismo è ritenuta romantica ma, ovviamente, impraticabile: dovremmo convenire unanimemente e una volta per tutte che intraprendere crociate localiste, istituzionalizzare "Giornate nazionali dei dialetti" e simili è roba da dirigenti scolastici di terz'ordine, politici locali poco scolarizzati e tendenzialmente postfascisti se al sud e vetero-leghisti se al nord e categorie così.
Al di fuori dei battibecchi di strada, del cabaret, della tv e, come si diceva, di Camilleri (si tratta, lo si ribadisce, di una presenza pervasiva) la dovremmo smettere coi dialetti.