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Agnes Heller, ungherese, allieva del filosofo György Lukács e, come lui, marxista del dissenso antisovietico, seppe far propria, nel corso della sua lunga vita (12 Maggio1929 – 19 Luglio 2019), patendo sulla propria pelle gli attacchi del Potere nelle sue più diverse manifestazioni, la tragica e feconda fluidità contemporanea: il passaggio a quella post–modernità che la filosofa ungherese, teorica de “La bellezza della persona buona” – che è anche il titolo di una raccolta di quattro saggi edita in Italia, nel 2009, da Diabasis – definisce come ciò che sorge dal tramonto delle grandi narrazioni, dalla crisi di quelle filosofie della storia delineanti un fine chiaro e necessario, la volontà di edificare il paradiso in terra della fine dei conflitti.

Per la Heller, invece, identità, qualità ereditate, origine, bisogni di casta, ordine universale riconosciuto, non sono valori/totem da difendere e, di contro,  contingenza, sbilanciamento, disordine, quantificazione, anonimato, indeterminatezza del destino individuale, sono individuate come categorie esistenziali della modernità e della post modernità.

Cosa costituisce, dunque, in tale contesto fluido e d’incertezza, il proprio epocale di ciò che chiamiamo Europa, Occidente?

A me pare che la Heller risponda a questo quesito con la rappresentazione liberatoria della nudità.

Il riconoscimento della universalità dei diritti, richiede che uomini e donne nascano spiritualmente nudi nel senso dell’assenza di un fine predestinato, di un futuro segnato dalla provenienza e dall’origine. È una nudità caratterizzata solo da riconosciuti bisogni naturali che, in quanto compiuta indefinitezza, si configura come assoluta possibilità.

È una forma di eguaglianza fondata sul rigetto di specifiche eredità di bisogni affermati sin dalla culla che è, quindi, rigetto dell’attribuzione di qualità – ecco di nuovo la critica alla “qualità” – predeterminate e immodificabili.

I bisogni qualitativi premoderni – che non sono, quindi, bisogni intimi e radicali di trasformazione di un “reale” di soggezione e dominazione – sono il punto di partenza riconosciuto e indiscusso di rapporti differenziati che strutturano la società nella fissità di un ordine che assicura sicurezza solo alle classi dominanti attraverso una allocazione delle risorse decisa ab initio.

Nel contesto liberale della modernità occidentale, invece, l’asimmetria sociale, la differenza qualitativa, costituisce non l’origine ma l’esito dello sviluppo esistenziale che è libero una volta assicurata l’eguaglianza nella nudità naturale senza privilegi, che diviene nudità e anonimato di fronte alla Legge.

È, in sintesi, il significato del principio di uguale opportunità, di libertà eguale, che delegittima ogni diversità valutativa fondata su pretese ereditate.

In tale contesto, l’allocazione dei bisogni in termini meramente quantitativi (e non qualitativi), la mercificazione/monetizzazione delle aspettative di base, svincolata dalle identità particolari, costituisce uno degli elementi “liberanti” della società democratica e di mercato, in quanto questa consente – anche in un’ottica di superamento e riforma dello status quo nell’ambito della affermazione della mobilità sociale – l’elaborazione del c.d. standard di vita, quale metro di comparazione tra gli individui che, evidentemente, è applicabile solo in una società nella quale ogni differenza è diventata solo quantitativa.

In età premoderna, invece, ci dice la Heller, nessun metro di paragone è utilizzabile tra le persone in presenza di diversità ontologiche che condizionano il destino degli strati sociali, fino a rendere impossibile il solo teorizzare un concetto quale standard di vita che significa, in breve, uno stile di vita globale indifferenziato e scalabile.

La delegittimazione delle diversificazioni speciali per nascita operata dalla società borghese, il superamento delle vicende del particolarismo giuridico, fu vista da subito con scarso favore dai cultori dell’identità e della “qualità” ed anzi –  precisa la filosofa ungherese  – la stessa tradizione romantica non è altro che una ininterrotta linea di accuse rivolta contro la completa indifferenza della società borghese per le distinzioni qualitative.

L’egualitarismo nella rappresentazione dei bisogni anonimi e la mercificazione/monetizzazione quale criterio dell’allocazione, furono biasimate come misconoscimento di raffinatezza e di bellezza.

Da un punto di vista squisitamente ideologico potremmo così riassumere: da sinistra, con il marxismo, la funzione appiattente e livellante del mercato fu condannata come feticismo e alienazione mentre da destra, con Friedrich Nietzsche, il correlato politico del mercato uniformante, ossia le democrazia di massa, fu denunciata come causa di annichilimento dell’affermazione aristocratica dell’Io voglio.

A fronte di tutto ciò la Heller, invece, sembra dirci: mercato e democrazia sono sì fattori appiattenti di un anonimato privo di attributi riconoscibili e, proprio per questo, sono fonti di emancipazione e possibilità.

Dalla storia spaventosa delle società di tipo sovietico, ci dice la filosofa, si apprende come pur accettando la critica al percorso di accelerazione verso la moltiplicazione e la mercificazione dei desideri, tipica della società borghese, l’abolizione del mercato non inverte la tendenza alla quantificazione dei bisogni ma produce solo la drastica riduzione dei prodotti disponibili, cui segue la diminuzione di tutti gli altri beni.

Nella società sovietica ritornò con forza la differenziazione per caste e il bisogno socio politico di potere, di riconoscimento pubblico all’interno dell’organigramma del Partito, divenne il bisogno qualitativo principale perché dalla posizione gerarchica che si ricopre nell’universo politico monolitico dipende la soddisfazione quantitativa di tutti i bisogni di sopravvivenza e il potere di determinare  – per gli altri – l’allocazione dei mezzi per soddisfarli.

È questo il quadro illiberale paradigmatico, e sempre in agguato come possibilità, che efficacemente la Heller definisce dittatura sui bisogni.

Per la filosofa, quindi, la realizzata evoluzione indeterminata e aperta della modernità europea fondata sulla contingenza fluida che spinge la mobilità sociale, consente quella misurazione dello standard di vita che legittima anche l’intervento perequativo dello Stato come avviene, appunto, nei sistemi di welfare state.

Nelle società post moderne figlie di questo sviluppo, quindi, si deve accettare come un beneficio – senza farsi trascinare dal neo romanticismo politico dei demagoghi affascinati da identità e differenze – il fatto che la soddisfazione dei bisogni appaia solo in forme quantitative, distinte in base al grado “più” o “meno”: più o meno denaro, più o meno risorse!

La distribuzione quantitativa operata attraverso il mercato meritocratico, infatti, ma anche la redistribuzione realizzata dallo Stato nel tentativo di mitigare le differenze esitate dal libero moto sociale, cozza con qualsiasi tentativo di legittimare, attraverso un rinnovato particolarismo giuridico, questo o quel gruppo o strato sociale, sconfessando lo standard uniformante per creare caste di uguali più uguali degli altri, così come rappresentato efficacemente da George Orwell nella Fattoria degli animali.

Va accettato, per ciò, anche in materia di redistribuzione, l’argomento liberale secondo il quale la monetizzazione genera libertà: l’allocazione di denaro tra i gruppi, infatti, rispetta le decisioni sui bisogni, intuiti come legittimi, operata dai singoli individui.

Di contro, la riconversione dei bisogni realizzata arbitrariamente dall’Autorità distopica e attuata, ad esempio, attraverso controlli e censure moralistiche sulle abitudini di vita e di spesa dei destinatari dell’assistenza pubblica, comporta anch’essa la supponenza che la persona non sia in grado di valutare ciò che è meglio per lei, sia incapace di allocare il guadagno nel suo personale linguaggio e sistema di bisogni.

E tale supponenza illiberale è tipica degli argomenti, come accennavamo sopra, sia di destra che di sinistra. Da destra si asserisce che la mancanza di consapevolezza dipende dall’emotività e dall’ignoranza del singolo (a fronte dell’Istituzione che svolge una funzione paternalistica di imposizione), da sinistra, allo stesso modo in fondo, utilizzando un artificio ideologico solo più complesso, si afferma la feticizzazione e lo squilibrio della coscienza individuale manipolata dal Mercato, per poi proporre la solita e univoca soluzione trasversale: la svalutazione delle scelte individuali, sostituite dalla programmazione di un diverso Padrone.

Se si accettasse – come è in effetti avvenuto nei paesi del socialismo reale – tale sofisma, sarebbe facilissimo condannare le scelte socio/politiche bollate come inautentiche e etero dirette, criminalizzando il valore dell’autonomia del singolo che, in fondo, è il principio dell’Occidente libero.

E l’autonomia del singolo – ce lo spiega bene la Heller – non ha nulla a che fare con la stabilità granitica di un ordine imposto d’autorità, con la soddisfazione astratta e collettiva di bisogni riferiti, ad esempio, alla classe proletaria o alla razza. La caratteristica liberante della modernità è la fluidità “possibile” della contingenza tragica:  la società moderna è una società insoddisfatta che, per fortuna, si sviluppa tramite questa insoddisfazione nella libertà individuale all’interno del moto collettivo garantito dallo stato di diritto, generando “stabilità” nella espansione rapida dei bisogni e dei mezzi che li soddisfano, anche in maniera trasversale rispetto ai differenti livelli di reddito.

Una volta riconosciuta tale stabile precarietà, Heller precisa come le utopie che mirano a stravolgere tale assetto sociale per fondare una società perfetta, libera dai conflitti, dalle scissioni della personalità, e dalla quantificazione anonima dei bisogni, siano pericolose anche nella loro figurazione contemporanea di fantasmi rinverditi dal populismo demagogico corrente.

Sono pericolose, quindi, perché la concezione di un processo messianico e necessario, di un superamento continuo di fasi erronee verso il Meglio, può giungere facilmente a perdere tutto, a smarrire anche quel poco che storicamente si è raggiunto.

Se, di certo, un problema grave, che non bisogna disconoscere, è quello della tendenza capitalistica alla iper sollecitazione di bisogni condizionati dalla correlata produzione di beni fruibili, la soluzione non può essere quella di buttare il “bambino” del benessere occidentale con “l’acqua sporca” delle sue degenerazioni, ma quella, attraverso la consapevolezza del processo che ci ha condotto fino a questa fase, di ripensare, proteggere, implementare, tutelare, proiettare, quei bisogni radicali e spirituali che non possono essere soddisfatti quantitativamente, che richiedono necessariamente limiti, che tendono a trascendere il reale in un ordine più giusto.

Tali bisogni – individuali e di Comunità –  per essere davvero salvifici però, non debbono mirare a sovvertire il Sistema all’interno di una nuova grande narrazione palingenetica, di una nuova causa persa rivoluzionaria, perché, come abbiamo visto, non basta negare la quantificazione dei bisogni a favore di una rinnovata qualificazione settaria e discriminante per categorie di potere, per produrre davvero una società libera.

Solo controbilanciando – con la critica non distruttiva – le categorie dello standard di vita comune, solo attraverso scelte sì alternative ma prive di inutili retoriche salvifiche, si può sperare di proteggere il pendolo della modernità dalle sue oscillazioni estreme.