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Il Ministro per i beni e le attività culturali Alberto Bonisoli, bocconiano, rettore del NABA di Milano, si è distinto in questi mesi di delirio governativo pop-populista per dichiarazioni dettate da insolita lucidità. Ricordate la polemica scatenata a seguito della sua iniziativa di razionalizzare l’iniziativa “musei gratis una domenica al mese”? Ecco, quello stesso Ministro ha però agito con ben minore lungimiranza nel dichiarare alcune settimane fa la volontà di firmare un Decreto attuativo alla Legge 2016/220 (“Legge Franceschini”) che determina rigidamente, per decreto appunto, la durata delle finestre di sfruttamento esclusivo dei film al cinema.

È l’ennesima vittoria del passato sul futuro, dello status quo sull’evoluzione dei costumi in questo Paese bisognoso di contemporaneità e innovazione. Oltre che l’ennesimo atto in ottica emergenziale che non affronta in maniera strutturata e strategica una questione (quella delle finestre di sfruttamento diritti in tutti i suoi aspetti) ma legifera tatticamente solo su uno, il più esteriore, dei suoi aspetti. Mi spiego: la legge vuole cristallizzare quello che è un consolidato gentlemen’s agreement tra esercenti (ovvero i proprietari delle sale) e distributori di contenuti. Un film esce al cinema e da quel giorno bisogna aspettare 105 giorni, tre mesi e mezzo, per poter permettergli di accedere alle finestre successive di sfruttamento tipiche del ciclo di vita dell’audiovisivo (vedi, nell’ordine: home entertainment, TV a pagamento, piattaforme digitali SVOD e TV gratuita). Fino ad allora lo si può solo vedere al cinema. In teoria. Perché poi buona parte dei film sparisce dalle sale dopo due, magari tre settimane, ammesso che venga mai programmata nella tua città.

Eppure, la tendenza mondiale al riguardo va esattamente nella direzione opposta, vale a dire quella di avere sempre maggiore flessibilità nello sfruttamento delle finestre, che sempre più si accorceranno e sovrapporranno tra loro in un’ottica di semplificazione dell’esperienza dell’utente finale, oggi obbligato a sottostare a bizantine practice delle quali ignora i dettagli e la logica. Menzionerei alcuni esempi a proposito: in Corea del Sud vige da qualche anno una finestra cosiddetta PremiumVOD che di fatto offre la possibilità a chiunque di guardare, pagando, un film in quel momento al cinema, a distanza di solo un paio di settimane dall’uscita in sala, col beneplacito degli esercenti che trattengono una quota dei ricavi; in Francia, Paese non certo lontano del nostro per il corporativismo immobilizzante nel nome della difesa del privilegio, lo scorso marzo è stata presentata una proposta di Legge per l’accorciamento delle finestre esclusive, quella cinematografica potrà scendere ad esempio a 90 giorni. Nel Regno Unito da quest’anno l’esercente indie Curzon Cinemas distribuisce i film di Netflix day&date (vale a dire al cinema dallo stesso giorno in cui esce su Netflix).

Il risultato di tale mancanza di visione? La pirateria è già fenomeno endemico, tanto che un report FAPAV (2016) afferma che l’Italia è il Paese al mondo con la maggiore incidenza della pirateria su film e programmi/serie tv (ogni anno il 40% degli adulti italiani commette almeno un atto di pirateria audiovisiva). Ebbene, la pirateria può essere combattuta al meglio offrendo il prima possibile contenuti usciti al cinema o in altri Paesi (vedi: Stati Uniti), e non è questa la direzione verso la quale si andrà con questa legge.

Altro tema: Netflix, uscita al cinema con l’attualissimo Sulla mia pelle (distribuito da Lucky Red, coproduttore con Netflix dell’italianissimo contenuto, selezionato anche a Venezia) lo stesso giorno in cui lo rendeva disponibile sulla sua piattaforma, non potrà più farlo. E cosa si troverà a fare da ora in poi? Semplicemente a non rendere più visibile al cinema i propri film, seppur prodotti in Italia, perché sarebbe altrimenti costretta a dover aspettare 105 giorni dalla sua uscita per poterlo offrire ai suoi stessi clienti.

Insomma, ancora una volta assistiamo a un impacciato tentativo istituzionale di conservare lo status quo: si cerca di difendere gli esercenti, obiettivo peraltro onorevolissimo, ma lo si fa senza alcuna visione e strategia, rispondendo pavlovianamente a una pressione lobbistica senza aver analizzato adeguatamente l’argomento, il mercato e le sue prospettive, e averne discusso con tutte le parti coinvolte. Tutto ciò a fronte di un calo sistematico di affluenza alle sale, in doppia cifra ormai da un paio di anni, spia di mali ben più profondi, certo non dovuti a disaffezione ai contenuti audiovisivi che mai sono stati visti così tanto e su così tante piattaforme come oggi.

Pertanto, in luogo di aiutare a rendere più competitiva l’offerta dei cinema attraverso le regole del mercato (come ad esempio l'obbligo di modernizzazione delle sale spesso vetuste, l'offerta di esperienze integrate e complete - ad esempio nursery per bambini -, servizi premium – ad esempio cene gourmet al cinema -, schermi IMAX, abbonamenti alle sale, sostegno ai cinema d’estate che da noi si desertificano) ci si focalizza su come difendere privilegi anacronistici rispetto all’incombente avanzata della modernità, qui incarnata dalle piattaforme digitali, nate solo pochi anni fa ma delle quali tutti noi già non possiamo più fare a meno.