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Quelli che si accomoderanno nella stanza dei telecomandi a Viale Mazzini, dopo avere trionfalmente occupato quella dei bottoni a Palazzo Chigi, non sono degli alieni o dei barbari calati entro i confini della politica domestica da un altrove lontano e sconosciuto. Non sono barbari, innanzitutto, perché sanno parlare la “nostra” lingua politica - quella eternamente e trasformisticamente italiana - tanto bene da averla saputa adattare ai codici della comunicazione post-giornalistica e del dibattito post-reale.

I nuovi potenti - quelli della politica e ora della TV - sono tutti, chi più chi meno, vecchi mestieranti dell’informazione e della consulenza, dell’opinione e dell’influenza, degli affari e dei quattrini. I più estranei di tutti, se non altro dal punto di vista generazionale - la delegazione parlamentare e governativa del M5S - sono il prodotto di laboratorio di uno stregone, Casaleggio, che ha frequentato fin dall’inizio i circoli del nuovo potere digitale e industrializzato la fabbrica delle verità parallele. Un pioniere, non un paria.

Non c’è nessuno, assolutamente nessuno del “nuovo” potere che non abbia linee di discendenza con quanti in questi anni hanno orientato o incarnato un cambiamento di volta in volta promesso o tradito. Il Presidente confermando della Rai, Foa, il nuovo ad Salini e i direttori e i vice che si porteranno appresso non arrivano dalla rete web, ma dai giornali dell’ex Cav., dalle reti televisive nazionali (soprattutto Rai) e dalle società di produzione, cioè dalla normale gavetta dell’informazione e del potere mediatico dell’ultimo ventennio.

La “rivoluzione culturale” annunciata da Di Maio in Rai è per un certo verso il normale regolamento di conti tra nuovi e vecchi vincenti nella catena del potere politico, ma per altro verso è un’anomalia assoluta, ma non nel senso della estraneità dei sopravvenuti potenti ai meccanismi del potere mediatico e politico, ma della loro fuoriuscita dal paludamento finto-imparziale dell’ideologia del servizio pubblico.
Non sono un’altra genia - vengono dallo stesso sottobosco - né celebrano una diversa liturgia, quella della dichiarata “liberazione” della tv dal potere padronale dei partiti. Ma hanno, detto molto banalmente, una diversa ideologia, che non è quella della lottizzazione spartitoria, camuffata da pluralismo informativo, bensì quella dell’occupazione predatoria della macchina del consenso, della guerra mediatica permanente, della degradazione della politica a sottoprodotto della comunicazione politica.

Il populismo è “assoluto” in politica come in tv. Non riconosce alcuna legittimità agli avversari, che se sono maggioranza vanno abbattuti, e se sono minoranza vanno cancellati e ridotti a feticcio del vecchio potere sempre incombente e risorgente e minaccioso contro i diritti e i desideri del popolo. Il nuovo presidente della Rai è un trafficante di fake news, non un professionista della politica o dell’informazione tradizionale, nè semplicemente il garante di un assetto di potere. Al contrario, è il capitano del disordine, dell’avvelenamento dei pozzi, della guerra senza quartiere ai nemici della “sovranità” nazionale. Esattamente quello che il suo dante causa Salvini e il suo committente politico e ideologico Putin, di cui fa da anni il piazzista in Italia, vogliono che si faccia: una nuova guerra civile italiana ed europea, a bassa intensità militare e ad altissima intensità politico-mediatica. Nessun compromesso, nessun prigioniero.

Il paradosso è che l'egemonia culturale del "pensiero contro" è stata incubata nel sistema televisivo, per così dire, istituzionale, Rai compresa. La Gabbia, L'Arena, Dalla vostra parte, Quinta Colonna - per non parlare delle trasmissioni giornalisticamente più professionali di Floris e Formigli, dell’eterno Vespa e dell’icona Gabanelli - hanno riscritto il linguaggio e il contenuto della politica democratica come un corpo a corpo tra Popolo e Palazzo. I soldi di Berlusconi, di Cairo e dei contribuenti tutti, attraverso i diversi gestori politici della Rai, hanno prodotto questo risultato. Per non parlare del giornale dei giornali, Il Corriere della Sera, che con la saga della Casta ha dato il tono che ha fatto la musica della politica contemporanea in Italia.

Dal “popolismo” informativo al populismo politico il passo è stato breve e fatale. Complimenti a chi, da destra e da sinistra e dalle cabine di regia dell’informazione stampa e tv ha teorizzato che la capitolazione culturale all'antipolitica, la subalternità al suo linguaggio e al suo sentimento, l'indulgenza corriva con i suoi eccessi e i suoi riflessi condizionati potesse essere una via di salvezza politica, un modo per salvare i cavoli del potere e la capra del consenso. Davvero un successone.

@carmelopalma