Non è politically correct, è la società che cambia
Terza pagina
L’Advertising Standards Authority (ASA), l’organizzazione di autoregolamentazione dell’industria pubblicitaria del Regno Unito, ha deciso di rendere la vita difficile ai pubblicitari che ricorrono agli stereotipi di genere. L’anno scorso ci fu a Londra lo scandalo della pubblicità Beach body ready, accusata di "body shaming". Più tardi è toccato a uno di spot latte materno che assegnava a una bambina un futuro da ballerina, al maschietto un avvenire da matematico. Il pubblico inglese, insomma, sta diventando sempre più intollerante alle rappresentazioni negli spazi pubblici di stereotipi di genere e donne oggettificate.
Prima di urlare alla dittatura del politically correct, riflettiamo su cosa sia l’ASA: un’organizzazione privata, finanziata da imposte volontarie da parte degli attori del mercato, con lo scopo di definire le regole di condotta degli operatori stessi e assicurarsi che siano rispettate. Non essendo un’organizzazione statale, non pone un problema di libertà d’espressione. Quando l’anno scorso il sindaco di Londra Sadiq Khan fece rimuovere dal trasporto pubblico londinese i manifesti coi “corpi pronti alla prova costume”, l’ASA ritenne il messaggio non problematico rispetto agli standard di autoregolamentazione del settore. Le sue sanzioni hanno carattere non coercitivo e sono accettate dalle imprese che aderiscono all’organizzazione e ne approvano gli scopi.
La proposta di modificare gli standard operativi delle campagne pubblicitarie nasce da un report su quelle che sono le percezioni del pubblico. Cosa ci dice il fatto che la maggior parte degli intervistati riconosca che certe pubblicità dipingono degli stereotipi? A prima vista, che la legge di Spencer ha colpito ancora: un problema è ritenuto tanto più grave quanto più sono sorte le condizioni per la sua soluzione.
Se la maggior parte dei consumatori sa riconoscere uno stereotipo, significa che già possiede gli strumenti per non caderne vittima. Ma proprio da questa consapevolezza nasce l’esigenza di arginare quelle immagini: gli stereotipi di genere, secondo gli intervistati, lanciano ai bambini un segnale sbagliato in merito alle aspettative su ciò che possono o non possono diventare. Non sono preoccupati dall’incapacità degli adulti di mettere in discussione gli stereotipi, ma dall’impatto che essi possono avere su chi ha meno strumenti per difendersi. E non è una preoccupazione immotivata: il confidence gap – la differenza di sicurezza in se stessi tra maschi e femmine – si allarga tipicamente negli anni dell’adolescenza.
L’ASA risponde ai pubblicitari, e i pubblicitari rispondono ai consumatori. E se la maggior parte di questi ultimi è stufa di corpi irreali e donne che rimediano al disordine lasciato da quei simpaticoni dei mariti e dei figli (maschi), non è una tragedia: non sarà la fine della libertà d’espressione se il mondo pubblicitario deciderà, spontaneamente, di rinunciare a quei contenuti. Le immagini provocatorie appariranno altrove: sui tumblr e sui blog – dove potremo semplicemente scegliere se guardarle o no – e non sui muri della metropolitana, dove transitano milioni di consumatori che, apparentemente, non le vogliono.
Se, come chi scrive, si è convinti che il cambiamento sociale non avviene dall’alto, attraverso le decisioni di pochi su quali modelli culturali vadano approvati, allora un caso di cambiamento spontaneo come questo non può che apparire benvenuto. Una trasformazione in cui individui e organizzazioni modificano le norme sociali per rispondere a una visione del mondo che prende piede, o contrastare una rappresentazione che non risponde più ai valori e alle esigenze condivise. Anche senza che lo stato stabilisca cosa si può fare e cosa no, la società può trovare dei sistemi per dire "questo non è accettabile".
Il caso dell’ASA e delle pubblicità sessiste dimostra che il cambiamento può avvenire, e in meglio, con soluzioni che giungono dal basso. Senza passare per l’imposizione di un legislatore.