TEDx

“Tre cose occorrono per essere felici: essere imbecilli, essere egoisti e avere una buona salute; ma se vi manca la prima, tutto è finito”. Avevo in mente questo aforisma di Flaubert mentre guidavo verso Bergamo, dove andavo ad assistere per la prima volta a un evento TEDx. Lo avevo letto la mattina sulla bacheca Facebook di un’amica, e lo stavo per condividere, perché mi sembrava arguto e sapevo che sarebbe piaciuto molto a certi amici miei.

Poi mi sono fermata, ripensando a quanto male facciano alla società e alle persone i frutti di questa mentalità, così attuale: un pessimismo pervasivo, che guarda con sufficienza agli ingenui che, per dirla all’americana, perseguono la conquista della felicità, o a chi, in maniera più concreta, declina questo concetto astratto e sfuggente con il coraggio di rivoluzionare la propria vita, o addirittura un piccolo o grande pezzo di mondo, seguendo i propri sogni. Ho ripensato all’ostilità supponente che frena qualunque cambiamento della società, dando per scontato che nulla può migliorare. E poi, passando dal pubblico al privato, mi sono tornate in mente anche alcune persone che ho conosciuto nella mia vita, convinte che crogiolarsi in una non meglio definita, ma molto compiaciuta, infelicità esistenziale, attribuisse loro una superiorità intellettuale su chi sperava in un futuro migliore godendosi le piccole e grandi gioie della vita. Tutti quelli che si sentono più intelligenti di chi “pensa positivo”, insomma, parafrasando Jovanotti, secondo molti l’antintellettuale per eccellenza, forse proprio per il suo risoluto, per alcuni irritante, ottimismo.

Pensavo a tutto questo, dicevo, mentre andavo a TEDxBergamo, evento a cui ero stata accreditata per varie ragioni all’ultimo momento, senza aver letto nulla del tema della giornata, senza sapere esattamente a che cosa andavo incontro.

TED sta per Technology, Entertainment, Design. Per la maggior parte di noi, l’acronimo indica video che circolano in rete e affrontano in maniera accattivante argomenti interessanti. Questa organizzazione nonprofit, che ha preso il via con una conferenza nel 1984, è in realtà molto di più: ci sono, oltre ai video, conferenze e molte altre iniziative. Tra queste, i TEDx, eventi che calano nelle realtà locali l’obiettivo centrale sintetizzato nello slogan “spread ideas”, diffondere idee. Detto così, il claim è molto generico e il principio non sembra così nuovo. Le idee da sempre, per loro natura, nascono e si diffondono. Internet, certo, aiuta in questo. Ma TED è qualcosa di più, per la capacità che ha dimostrato di catalizzare attraverso la rete migliaia di voci sui più svariati argomenti, dalla A di Activism alla C di CRISPR, dalla W di War alla Y di Youth, dalla genetica alla filosofia, dall’industrial design alla mindfulness. Il tutto con un linguaggio sempre comprensibile a tutti, abbattendo gli steccati degli ambiti professionali e di conoscenza. Un gran minestrone, criticano i soliti, che inevitabilmente resta alla superficie delle cose. Una macchinetta del caffè globale, penso invece io, cioè il luogo dove chiacchierando delle proprie esperienze e del proprio lavoro nascono nuove intuizioni, applicazioni, collaborazioni impreviste.

Eppure i soli video, con tutta la loro efficacia espressiva, ancora non rendono come un evento dal vivo. Sentire uno di fila all’altro dodici interventi diversi, da persone di estrazione diversa, su temi apparentemente lontani, dà invece chiaramente l’idea del filo conduttore che c’è dietro, della volontà di pensare fuori dagli schemi, di mobilitare le risorse sepolte in ognuno di noi, di pensare all’innovazione non come semplice avanzamento tecnologico, ma come miglioramento della condizione dell’umanità e di ciascuno.

Partecipare all’evento, in cui oratori e performer si alternano sul palco, significa cogliere lo spirito che concepisce l’innovazione come un capovolgimento di paradigmi esistenti, che può avvenire solo se pensa “out of the box”. Il piano economico e sociale si sovrappone e quasi si confonde continuamente a quello personale, come per ribadire che le trasformazioni sociali create dalle nuove tecnologie rispecchiano in qualche modo quelle a cui ciascuno di noi va incontro nella sua vita. E così ha un senso vedere accostati il venture capitalist che finanzia con centinaia di migliaia di euro le nuove start up, o il brillante creativo italiano diventato famoso a New York, con il giovane che lascia un posto sicuro in banca, si scioglie il nodo della cravatta - metafora del legame che gli impedisce di realizzare il suo sogno - e affronta un lungo giro del mondo in mille giorni, senza mai prendere un aereo.

“Stop dreaming, just do it”, si è ripetuto, con uno slogan che ne ha riecheggiati altri, apparentemente banali. Citazioni da Gandhi e da Goethe che, parlando di fiducia nelle persone e nel mondo, spingono all’azione. Frasi semplici, da Baci Perugina o meme su Facebook, mi sembra già di sentir commentare. Cose come il motto “We can”, che ci fanno sognare in bocca a Barack Obama e ci fanno invece sorridere di chiunque provi a portare alle nostre longitudini questa mentalità pragmatica e visionaria insieme.

Ma il mondo non ci aspetta: società nate per rispondere a esigenze di Paesi a basso e medio reddito stanno già conquistando i mercati europei e americani con le loro soluzioni innovative; ventenni che smanettano sui codici in garage creano imprese del valore di milioni di dollari; auto che non richiedono conducente, robot che assistono gli anziani, stampanti 3D che permettono di realizzare in casa oggetti impensabili. Eppure c’è poca consapevolezza di quanto tutto questo cambierà nel giro di pochissimi anni il nostro modo di vivere, dei dilemmi anche etici che tutto questo pone alla società.

Il mondo che si sta trasformando sotto i nostri occhi ha molto a che fare con quel che ci accade tutti i giorni. Ogni tappa della vita può essere intesa come una minaccia al nostro status quo o una grande opportunità che ci viene offerta. Su questo doppio binario, pubblico e privato, si possono leggere le storie di un mondo che cambia.

La sfida richiede una nuova contaminazione dei saperi, uno scambio di competenze e approcci che aiuti a guardare i problemi da un diverso punto di vista: a spiegare cosa significa la leadership, per esempio, è stata chiamata una giovane donna, brillante direttore d’orchestra, che ha spiegato che cosa significhi guidare un gruppo di professionisti, ognuno con le sue conoscenze e capacità specifiche, dando sicurezza e autonomia insieme. Due simpatici percussionisti hanno coinvolto il pubblico con una sorta di gioco in cui facevano battere a diversi gruppi di persone tubi di plastica di diverso colore, finendo per creare un motivo musicale. Un esperimento che avevo visto già, ma che in questo contesto, senza una parola di spiegazione, solo con i fatti, ha dato il senso di come si possano armonizzare i contributi di tutti, partendo dal basso, per ottenere un risultato sorprendente. Lo stesso messaggio passato dalle quattro voci delle cantanti jazz che hanno incantato la platea. Una giovane imprenditrice di successo ha invece usato la sua passione per il surf per spiegare come si debba cavalcare l’onda dell’innovazione, studiando con cura il contesto socioeconomico così come si valutano venti e correnti in una baia ed esercitandosi a sfruttare al meglio la forza irruente dell’acqua invece che tentare di opporvisi.

La metafora dell’onda non è solo positiva. Il cambiamento può essere catastrofico come uno tsunami. L’introduzione di una nuova tecnologia può lasciare migliaia di persone senza posto di lavoro. E, nel privato, ci sono cambiamenti che travolgono le famiglie allo stesso modo: un lutto, una separazione, una grave malattia o un incidente che da un giorno all’altro getta una persona nel mondo della disabilità. La neurologa che ha evocato questo tema ha chiamato “rivoluzionarie della tenerezza” le persone che assistono chi si trova in condizione di non essere più autosufficiente. Ma ha chiuso il suo intervento con una storia che ha commosso tutti i presenti. Chiamata nelle Filippine dopo un disastroso tsunami, aveva trovato un paese totalmente raso al suolo. Tra le macerie svettava però un ristorante senza nessun segno di danno, imbiancato di fresco, su cui svettava l’insegna: “Da Giuseppe, ristorante italo-filippino”. Il proprietario, italiano, dopo la tragedia che aveva abbattuto il suo locale come tutti gli edifici circostanti, aveva chiesto la collaborazione di tutti i suoi dipendenti. Sapeva che presto sarebbero arrivati i soccorsi internazionali, e che i soccorritori avrebbero apprezzato un piatto di spaghetti al termine di una giornata di duro lavoro. Cuochi e camerieri si sono quindi risvoltati le maniche e insieme a Giuseppe hanno rimesso in piedi la struttura a tempo di record, trasformando il disastro che li aveva colpiti in un’opportunità di business.

È una storia, che non può diventare una regola. Ci sono circostanze diverse, possibilità diverse, difficoltà diverse. Ma il giorno in cui ho fatto questa esperienza era anche un anniversario significativo nella mia vita personale, che certamente ha contribuito a portare sul piano personale le cose che ho sentito, gli stimoli di riflessione che ho ricevuto. Negli ultimi anni ho sperimentato anch’io, come Giuseppe, che un tornado può trasformarsi in un’opportunità, non appena cominci a guardarlo da questo punto di vista.

Perciò no, non credo che cercare di cogliere le briciole di felicità che la vita può offrirti sia da imbecilli, che guardare al bicchiere mezzo pieno sia da ingenui, che cavalcare l’onda del cambiamento invece che opporvisi sia da illusi. Nel pubblico come nel privato io sto con Giuseppe, con buona pace di Flaubert.