trattori grande

Nelle proteste degli agricoltori europei contro le istituzioni dell’Unione sembrano confrontarsi due ragioni: quella di corrispondere agli obiettivi del Green Deal e quella di evitare che la cura ammazzi il malato, facendo un’agricoltura “buona”, ma anche morta.

In realtà si confrontano soprattutto due torti: quello di chi rifiuta di integrare le compatibilità ambientali nelle più generali compatibilità economico-sociali della vita e dell’attività umana e quello di chi ritiene che l’unico modo di preservare gli interessi di un settore sia quello di fare “come si è sempre fatto”.

Tutto ciò porta a un dialogo tra sordi e ad accuse del tutto insensate: di parassitismo verso gli agricoltori in genere e di tradimento verso Commissione e Parlamento Ue. Due forme uguali e contrarie di populismo.

Gli agricoltori europei operano all’interno di un quadro di regole severissimo, sia dal punto di vista ambientale che sanitario. Il cibo europeo è non solo il migliore, ma il più sicuro del mondo, eppure i consumatori europei e italiani sono sempre più terrorizzati.

Gli indennizzi che gli agricoltori ricevono non sono solo un vantaggio, ma sono anche un costo regolatorio, che viene socializzato perché se venisse riversato integralmente su di essi l’attività agricola cesserebbe di essere un’attività economica e diventerebbe un hobby.

Il valore di questi indennizzi inoltre va sempre più riducendosi perché si vanno facendo sempre più stringenti i requisiti di produzione, che peraltro non seguono sempre logiche scientifiche. Si sostiene che la spesa pubblica europea non sia calata, ma per ottenere contributi di qualche decina di euro in più ad ettaro è richiesto di produrre di meno (cioè rinunciare a difendere le colture dagli insetti e dalle malattie) con conseguenze immediatamente depressive del reddito degli agricoltori, oltre che della qualità dei prodotti.

Anche la disputa sul regime fiscale dell’attività agricola sembra basato sul principio che l’unica alternativa sia tra fare e non fare quello che si è fatto in precedenza. Ma non è così. Ad esempio, bisognerebbe discutere sull’opportunità di avere un identico regime forfettario per attività agricole economicamente molto diverse: una cosa è coltivare e vendere frumento, un’altra uve da vino.

Gli agricoltori sanno solo lamentarsi? Non sanno stare sul mercato? Ma non è forse vero che a impedire loro di stare davvero sul mercato sono le decisioni irrazionali di quelli per cui sanno solo lamentarsi, oltre che le scelte autolesionistiche di alcune organizzazioni sindacali del mondo agricolo?

Di certo chi produce mais non può competere con il mais ogm estero, che è più sano del nostro e alimenta gli animali da cui traiamo i rinomati prodotti del made in Italy. L’ogm in Italia è proibito, ma per decisione nazionale, non europea. In dieci anni sul mais per allevamento siamo passati dalla completa autosufficienza a una dipendenza del 50%. Insomma gli agricoltori protestano perché sono soffocati dalla burocrazia e dall’ideologia, che anche molti guru dell’agricoltura nazionale alimentano.

Cosa ci serve? Ci serve più innovazione non solo nel modo di accompagnare e non soffocare sul piano regolatorio l’attività agricola, ma anche rispetto alle tecniche di produzione. Oggi ci sono nuove biotecnologie utili per la sostenibilità ambientale ed economica del processo di produzione del cibo: in Italia le chiamano TEA, tecniche di evoluzione assistita; in Europa NGT, New Genomic Techniques. Finalmente anche l’Italia ha fatto richiesta per le prove in campo di un riso ottenuto con TEA dal team della prof. Vittoria Brambilla dell’Università di Milano. Permetterà di evitare il trattamento fungicida visto che il riso non si ammalerà di brusone.

L’apertura di questa stagione impone scelte importanti anche sul piano finanziario e della programmazione. Bene: ci auguriamo che da questa apertura arrivi anche una nuova stagione di finanziamenti per la ricerca e una chiara strategia per la filiera del cibo.

Poi serve che noi agricoltori condividiamo le sfide che abbiamo davanti, non le nostalgie per il mondo che abbiamo alle spalle. Così possiamo evitare l’alternativa fintamente obbligata tra un ambientalismo ideologico e un sovranismo agricolo passatista.