Lunedì sera a Otto e mezzo, commentando lo stupido azzardo dei cosiddetti Covid party, assembramenti in cui alcuni (soprattutto) giovani cercano il contagio, per avere una immunizzazione e un green pass non vaccinale, l’ex direttore generale dell’Aifa, Guido Rasi, ha detto: “Se partecipano 1000 persone, sappiamo esattamente che un 20% andrà in terapia intensiva e il 10-12% morirà”.

In pochi secondi la trasmissione ammiraglia dell'infotainment cool ha fatto tutto ciò che non si dovrebbe fare, se non si vuole sperperare il credito e la fiducia finora guadagnata dalla campagna vaccinale – campagna destinata a proseguire non sappiamo per quanto – con una comunicazione smaccatamente falsa e inutilmente polarizzante, che consegna la giusta causa dei vaccini alla lotta nel fango delle fake news.

Già discutere dei Covid party – non esattamente un fenomeno di massa – come di un comportamento diffuso e allarmante, significa creare le condizioni perché lo diventi. Se i cronisti di nera devono imparare che il racconto della violenza, in particolare di quella più morbosa, suscita tanto sentimenti di ripulsa che di emulazione, di fronte al Covid occorrerebbe adottare analoghe cautele, evitando di rappresentare e promuovere l’esitazione vaccinale o la vaccinofobia come una forma di opposizione rischiosa, ma eroica, che mette in scacco il potere costituito e ne paralizza gli ingranaggi.

In ogni caso, se per stigmatizzare i Covid party se ne ingigantisce il rischio, già di per sé notevole, in modo platealmente esagerato, il risultato è doppiamente negativo, perché, da una parte, conferma nei contrari ai vaccini la convinzione di correre un rischio molto inferiore a quello reale – la menzogna corrobora sempre la fiducia in una menzogna di segno opposto – e dall’altro consegna a chi è capace di discernimento e coltiva una fiducia razionale nella fondatezza della comunicazione scientifica un esempio da manuale di “aggiustamento” di un indice di rischio per finalità puramente propagandistiche. A questo si aggiunge l’effetto panico tra persone più ingenue e meno avvertite, che hanno sentito dal consulente scientifico del generale Figliulo svelare un tasso di gravità e di letalità dell’infezione di decine di volte superiore a quella giornalmente comunicata dalle istituzioni sanitarie nazionali.

Nello stesso giorno in cui il Prof. Rasi spiegava che “sappiamo esattamente” che in terapia intensiva finiscono il 20% dei potenziali partecipanti a un Covid party e ne muoiono tra il 10 e il 12%, quel che davvero sappiamo dall'ultimo aggiornamento nazionale dell'Istituto superiore di sanità è che nell’ultimo mese tra i non vaccinati sono finiti in terapia intensiva lo 0,10% e sono morti lo 0,03% degli infetti tra i 12 e i 39 anni; percentuali che salgono rispettivamente allo 0,66% e allo 0,24% tra i 40 e i 59 anni e al 3,6% e al 2,5% tra i 60 e i 69 anni (tabella 3, pag. 17).

Immagino che il Prof. Rasi non si sia sbagliato o confuso, ma abbia detto quel che pensava giusto dire per impressionare il pubblico, come quando si cerca di suscitare l’obbedienza dei bambini minacciando l’arrivo dell’uomo nero. Ma è proprio quest’idea implicita nel paternalismo medico – visto che i pazienti non possono capire la verità, è pure meglio non fargliela sapere – a rappresentare una pesante zavorra della campagna vaccinale per la terza dose, che comporta di per sé una relativizzazione dell’efficacia dei vaccini – efficacia, si badi, letteralmente grandiosa, ma non tale da togliere il Covid di torno – e quindi implica un’adesione più ragionata e una riflessione più complicata nei cittadini.

Il long Covid, non solo come affezione individuale, ma come condizione sociale, complica maledettamente le cose, perché la cronicizzazione di una condizione di rischio muta sempre in modo radicale il rapporto rispetto alle cautele e alle risposte alla minaccia. Quello su cui gli scienziati sociali si interrogano è liquidato purtroppo da molti virologi, epidemiologi e farmacologi con un buon senso da Bar Covid che lascia sinceramente affranti per la loro incapacità di riflettere scientificamente su temi esterni ai confini dei rispettivi ambiti disciplinari .

Che in questo quadro le bufale "a fin di bene" possano considerarsi una risorsa spendibile per la campagna vaccinale è infatti un’assunzione pesantemente anti-scientifica, se si considerano i moventi e gli incentivi del comportamento individuale e sociale. Il vaccino, come ogni forma di trattamento sanitario è, in primo luogo, un atto di fiducia. I pazienti in genere sono razionalmente consapevoli di non potere personalmente comprendere, né di potere direttamente verificare perché, come è loro promesso, da un trattamento riceveranno un vantaggio, ma traggono conferma della propria fiducia dalla trasparenza dei processi che portano ad attestare i risultati attesi.

Non credono al vaccino, come si crede nell’efficacia di un talismano, né vi si sottopongono come si ubbidisce alla parola di un re o di un sacerdote. Chi si era entusiasticamente vaccinato sperando di tornare “alla vita di prima” e oggi deve affrontare un inverno che somiglia al precedente – ma non lo è affatto, se si guarda a ospedalizzazioni e morti – oggi ha urgente bisogno che gli si parli come a un adulto preoccupato, non come a un bambino capriccioso. Ma è molto più complicato fidarsi di quanto dice sui vaccini qualcuno che mente clamorosamente, anche se "a fin di bene", sui dati delle ospedalizzazioni e delle morti dei non vaccinati.

Il paternalismo informativo, in un contesto di suo già sufficientemente funesto, aiuta solo a confermare l’impressione della cosiddetta dittatura sanitaria e dell’utilizzo del virus, o perfino della sua “invenzione”, come mezzo di dominio e come innesco di un enorme esperimento sociale totalitario. Insomma, le bugie bianche sul Covid servono solo a riempire le piazze nere e a descrivere il vaccino a immagine e somiglianza del mostro descritto nella propaganda no-vax. Un favore inutile e certamente immeritato.