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La Commissione Europea si propone di portare l’Unione ad essere climaticamente neutra entro il 2050. Per arrivarci ha redatto il Green Deal, una tabella di marcia i cui ambiziosissimi obiettivi non si possono non condividere.
All’interno del Green Deal troviamo in particolare due Strategie da attuarsi entro il 2030: quella sulla Biodiversità e quella nota come Farm to fork, “dal campo alla forchetta”.

Di quest’ultima abbiamo già scritto qui ma, in breve, si propone di arrivare ad una riduzione dell’uso di agrofarmaci del 50%, di fertilizzanti del 20%, di antimicrobici negli allevamenti e in acquacoltura del 50%, e di destinare il 10% della terra coltivata ad usi non produttivi. Inoltre intende spingere l’agricoltura biologica per farla passare dall’attuale 7,5% al 25%. Lodevolmente intende fare guerra agli sprechi lungo tutta la filiera produttiva, fino al consumo e combattere le cattive abitudini alimentari. Alla luce di recenti studi si rende necessario parlarne nuovamente.
La Commissione non ha effettuato alcuna valutazione di impatto delle Strategie alle quali sta vincolando gli europei, cosa che sta sollevando malumori da molte parti anche del mondo scientifico oltre che di quello delle imprese.

Altri però ci hanno fatto i conti in tasca. Nei giorni scorsi lo USDA (U.S. Department of Agriculture) ha pubblicato un proprio studio che valuta l’impatto che la riduzione degli input produttivi sopra elencati avrà sulla sicurezza alimentare ed economica. Lo fa ipotizzando tre scenari di applicazione: 1) solo nell’UE; 2) UE e Paesi partner commerciali dell’UE; 3) tutto il mondo. Le conclusioni sono che tutti e tre gli scenari ipotizzati impattano gli agricoltori europei con diminuzioni della produzione dal 7 al 12% e calo della loro competitività sia nel mercato interno che in quello estero. I prezzi del cibo aumenteranno a livello mondiale del 9% (scenario 1) fino al 89% (scenario 3). Il welfare sociale mondiale si ridurrà di un valore tra i 96 e i 1100 mld $ a seconda dello scenario. Le persone con problemi di accesso al cibo aumenteranno di 22 mln nella migliore delle ipotesi; di 185 mln nella peggiore. Anche il PIL europeo ne risentirebbe con un calo che persino nello scenario di applicazione più contenuta, il numero 1, sarebbe stimato pari a 71 mld $ e lo porterebbe a rappresentare il 76% del calo del PIL mondiale.

Per la simulazione gli esperti dello USDA hanno usato un modello che divide il mondo in 18 zone agroecologiche, esamina i mercati potenziali e gli impatti delle Strategie sull’economia, tiene anche conto della competizione nell’uso della risorse terra fra agricoltura e altri settori. L’arco temporale per la valutazione delle conseguenze è di medio periodo: 8-10 anni. Poi sono stati valutati gli impatti sulla sicurezza alimentare, intesa come disponibilità di cibo, stimando le variazioni di PIL e di prezzo degli alimenti.

Gli scenari 2 e 3 possono apparire un esercizio di modellistica, ma è la Commissione stessa a proporre di usare le politiche commerciali comunitarie e ogni sforzo internazionale per supportare e promuovere questa visione del sistema agroalimentare, suggerendo di espanderla anche oltre l’UE: parla infatti di “global transition”.

I numeri che i modelli restituiscono sono francamente preoccupanti e non solo per gli agricoltori europei, che in ciascuno degli scenari dipinti vedono diminuire la propria competitività. È necessario valutare seriamente le conseguenze in termini di insicurezza alimentare, instabilità sociale, pressione migratoria perché le politiche dell’UE impatteranno con particolare durezza i Paesi a reddito basso e medio-basso a causa dell’aumento del costo del cibo e del declino dei redditi, in particolare in Africa. A questo si sommano le conseguenze del cambiamento climatico, del quale giustamente la Commissione vuole occuparsi, e che colpiscono e colpiranno tutto il pianeta in modo negativo (con l’eccezione forse dell’estremo Nord di Europa e Asia e del Canada) ma con particolare durezza il sud del mondo.

Lo studio conclude auspicando importanti investimenti in ricerca e sviluppo perché l’adozione di nuove tecnologie può ridurre gli effetti negativi delle Strategie sulla produttività, e chiude con una frase particolarmente ispiratrice: “la sostenibilità si ottiene con l’attitudine a un costante adattamento alle nuove sfide attraverso scienza e innovazione”.
Il lavoro svolto dallo USDA dichiaratamente si limita ad analizzare gli effetti della riduzione degli input produttivi (terra, agrofarmaci, fertilizzanti e antimicrobici) sui mercati, non quelli della riduzione degli sprechi. Non prende in considerazione neanche gli eventuali effetti (positivi o negativi) sull’ambiente e sulla salute umana.

Di conseguenze sull’ambiente, ma non solo, si occupa invece uno studio uscito su Nature nell’ottobre scorso e intitolato piuttosto eloquentemente “Il Green Deal europeo esternalizza il danno ambientale ad altre nazioni. Importare milioni di tonnellate di derrate e di carne erode gli standard dell’agricoltura europea e distrugge le foreste tropicali”. Tanto per citare un dato, nei venticinque anni del 1990 al 2014 le importazioni europee hanno portato a deforestazione nei Paesi partner commerciali per 11,3 mln di ettari; si tratta soprattutto di foreste tropicali, una grande perdita per la biodiversità. Contemporaneamente le politiche interne, fra le quali quelle volte a spingere gli agricoltori europei a produrre di meno, hanno ottenuto un aumento delle foreste in Europa pari a 12,6 mln di ettari.

In conclusione, è pericolosa la tentazione di trasformare l’Europa in un giardino che può apparire bello all’occhio dell’ambientalista ma è scarsamente produttivo. Significa addossare ad altri l’onere di sfamarci, aumentare la nostra dipendenza dall’estero, metterci in competizione con i consumatori di Paesi più poveri, inquinare di più. Siamo quasi 8 miliardi, 450 milioni in Europa, tanti; produrre il nostro cibo in modo sostenibile per il pianeta, per gli agricoltori e per le popolazioni che lo devono acquistare si può fare solo applicando ogni innovazione che la ricerca mette a disposizione. Si chiama intensificazione sostenibile; prevede l’uso diffuso del digitale per ottimizzare gli input produttivi come agrofarmaci, fertilizzanti e acqua irrigua; modelli previsionali per le patologie e le avversità; la lotta integrata nei casi in cui sia efficiente; e le biotecnologie applicate al miglioramento genetico, che la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha definito “strategiche ed abilitanti”.