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La Commissione Europea ha recentemente presentato le sue due Strategie Farm to Fork e Biodiversity all’interno della tabella di marcia verso il Green Deal. È una buona cosa che la Commissione stia lavorando ad una visione organica dell’agricoltura, della produzione di cibo e del suo impatto sull’ambiente. Però ogni strategia deve partire dall’individuazione di obiettivi basati su dati scientifici; successivamente si possono ricercare le soluzioni.

Le decisioni che verranno prese avranno un impatto sulla competitività degli agricoltori, sulla quota di autosufficienza alimentare del continente, sulla sicurezza alimentare e sull’ambiente. Questa è la ragione per la quale la discussione sull’argomento deve essere libera da preconcetti ideologici che potrebbero impedire l’adozione di soluzioni utili o ostacolare approcci costruttivi orientati alla ricerca di soluzioni efficaci.

L’implementazione di qualsiasi strategia necessita di inclusività e la voce degli agricoltori deve essere presa in considerazione. Gli agricoltori devono essere coinvolti attivamente nella discussione, non possono limitarsi a subire passivamente le decisioni. Una buona governance, inoltre, prevedrebbe di condurre valutazioni di impatto ex-ante di tali proposte, sia per le conseguenze economiche che per quelle ambientali. È bene pertanto chiedere che queste valutazioni vengano effettuate prima di ogni decisione, perché le conseguenze delle azioni proposte dalla Commissione potrebbero essere pesanti.
Ricordiamo gli obiettivi proposti, da attuarsi entro il 2030: portare l’agricoltura biologica dall’attuale 7,5% al 25% della superficie coltivata; ridurre l’utilizzo di agrofarmaci del 50%; ridurre del 20% la nutrizione delle piante tramite fertilizzanti; il 10% della superficie agricola dedicata a usi non produttivi. Viene da chiedersi da dove vengano questi numeri, perché sorge il sospetto che si siano invertiti i passaggi sopra raccomandati. L’impressione, cioè, è che nello scrivere le Strategie la Commissione abbia basato le proprie decisioni su idee politiche invece che su dati scientifici. Questo è un approccio pericoloso, perché porta a confondere obiettivi e soluzioni. Prima si fissano gli obiettivi, poi si individuano gli strumenti per raggiungerli.

Un esempio è quello della riduzione, a tavolino, dell’utilizzo di agrofarmaci del 50%. Perché, su quali presunti indici di pericolosità? Perché si parla di agrofarmaci in generale, a prescindere dalle caratteristiche di ciascuno di essi, che sono molto diverse? Sono stati valutati i trade off di una simile proposta? Dove sono i dati scientifici a supporto di questa rotondeggiante percentuale? Come si può disegnare uno scenario senza considerare scienza e ricerca?
Dal 1993, grazie ad una severa revisione dei principi attivi a disposizione, il 67% delle molecole è stato ritirato dal mercato; il 26% ha pienamente superato la revisione; il restante 7% verrà ritirato non appena saranno a disposizione mezzi di protezione migliori. Questo ha reso il lavoro degli agricoltori e l’ambiente più sicuri, ma la riduzione dei principi attivi consentiti ha reso più difficile la protezione dei raccolti: meno molecole a disposizione significa anche maggiore possibilità di insorgenza di resistenze nelle piante infestanti, gli insetti, i patogeni fungini. Pertanto guardiamo alla ricerca, a quella biotecnologica in particolare, con grande speranza.

Perché abbiamo bisogno di proteggere i raccolti? Uno studio del 2017 di V-safe, spin-off dell’Università cattolica del Sacro Cuore di Piacenza ha dimostrato che senza protezione in campo e nel post-raccolta le perdite sarebbero spaventose: -67% nelle mele, -81% nel pomodoro, -71% nelle uve da vino, -87% nel mais, -70% nel grano duro, per fare alcuni esempi. Una potenziale perdita di 6.8 mld € per le nostre esportazioni; una perdita per le filiere di 7.8 – 34.8 mld di €, a seconda del prodotto. Eppure l’utilizzo di agrofarmaci continua a calare: -40% in Italia negli ultimi 30 anni, grazie a macchine per la distribuzione più precise, migliore conoscenza delle avversità, migliore capacità degli strumenti diagnostici, dei modelli previsionali e del digitale.

In definitiva, gli agricoltori stanno già facendo molto per migliorare la propria impronta ecologica: quello che le recenti proposte della Commissione auspicano sta già avvenendo. Ma senza protezione più di metà dei nostri pasti svanirebbe a causa di insetti, funghi e malerbe. Non dimentichiamo che la FAO ha dichiarato il 2020 Anno Internazionale della Salute delle Piante, poiché stima che il 40% dei raccolti mondiali vada perso ogni anno a causa della mancanza di adeguati strumenti protettivi. È difficile da accettare, è un grande spreco e non è etico tollerarlo. Gli agrofarmaci sono uno degli strumenti a disposizione, non l’unico, insieme al miglioramento varietale, le biotecnologie, la gestione tramite lotta integrata, ecc.

Un’altra proposta difficile da comprendere è quella che vorrebbe vedere crescere di molto l’agricoltura biologica, facendola passare dall’attuale 7.5% della superficie coltivata in Europa (si tratta per molta parte di pascoli) al 25% nell’arco di dieci anni: una crescita che spaventa i produttori biologici stessi e per motivi condivisibili. È un metodo di produzione che rappresenta una interessante fonte di reddito per alcuni agricoltori, ma le conseguenze di un simile proposito di crescita devono essere approfonditamente valutate. I rischi sono di mettere a rischio la capacità di auto-approvvigionamento dell’Unione Europea, di aumentare la dipendenza dall’importazione da Paesi terzi, di stimolare la deforestazione in tali Paesi, di mettere i consumatori europei in competizione con i cittadini di Paesi più poveri, di aumentare le emissioni di gas serra sia per la produzione che per la spedizione delle derrate.

La produzione biologica e quella convenzionale possono e devono coesistere, per assicurare libertà di scelta sia al consumatore che al produttore. Inoltre la presenza di aziende convenzionali contribuisce a proteggere anche le coltivazioni a biologico, perché contiene le popolazioni di insetti dannosi all’agricoltura nel territorio. Ma affidarsi al biologico per cibare gli europei, lo dicono diversi studi scientifici, potrebbe comportare rischi per l’ambiente, la biodiversità, e l’autosufficienza. Pensiamo per esempio alla produzione di proteine vegetali in Europa, per le quali il continente è carente: la nostra quota di auto-sufficienza è del 79% per la colza, scende al 42% per il girasole, è solo del 5% per la soia.

Alla base di tutti questi progetti – è inutile nasconderselo – sta la paura dei cittadini, che sono spaventati da quel che mangiano. EFSA ogni anno pubblica i dati sui residui di agrofarmaci nei nostri cibi e i risultati sono del tutto tranquillizzanti. Un recente studio danese ha dimostrato che il rischio legato alla presenza di agrofarmaci nel nostro cibo è pari a quello legato al bere un bicchiere di vino ogni tre mesi; uno, ogni tre mesi. Produciamo cibo all’interno del quadro normativo più severo al mondo, i nostri alimenti sono sicuri, eppure queste informazioni faticano ad arrivare ai cittadini. Quando arrivano non riescono a tranquillizzare.

Credo che dovremmo puntare alla consapevolezza dei cittadini, non alla paura. Dalla paura non nascono buone decisioni; lo diceva con grande saggezza il filosofo Giulio Giorello, recentemente scomparso.
Gli agricoltori vogliono ricostruire il dialogo con la società. Siamo interessati a produrre seguendo sempre le evidenze scientifiche, sia per quel che riguarda l’agronomia, sia per la protezione dell’ambiente in cui lavoriamo. Ma, come brillantemente spiegato in un recentissimo studio pubblicato su Nature Food, serve un dialogo costruttivo fra portatori di interesse, privo di posizioni ideologiche e orientato alla ricerca concreta delle soluzioni, che porti a un chiaro percorso di transizione verso metodi di produzione più innovativi. Abbiamo bisogno di approcci rivoluzionari che cambino le regole del gioco: ottenerli dipende dal contesto politico, da quello economico, dai bisogni della società, dalle condizioni socio-economiche.

Dobbiamo essere molto prudenti nel proteggere il nostro cibo. Gli agrofarmaci ci servono, fino a quando non saranno a disposizione nuovi strumenti. Ecco perché abbiamo una grande fiducia nella ricerca, l’innovazione, il miglioramento genetico e ogni altro strumento che ci consenta un uso efficiente delle risorse.